Sette anni sono passati, dalle prime denunce di
brogli. Sette anni di promesse, impegni, pensosi bla-bla-bla.
Eppure gli italiani all'estero torneranno al voto con le stesse regole pazze
che hanno permesso raggiri d'ogni tipo. Come quello ripreso in un video dove
dei ragazzotti nati e cresciuti in Australia, in cambio di una cassa di birra,
riempivano in un garage di Sydney centinaia di schede elettorali per mandare senatori
e deputati a Roma. Dice ora Berlusconi che sarebbe bene spostare il voto più in
là possibile perché «si può generare caos soprattutto per le elezioni
all'estero». Certo è che dopo avere osannato nel 2005 i nostri emigrati come
«strumento insostituibile della proiezione dell'Italia nel mondo» e dopo averli
attaccati nel 2006 («Non pagano le tasse, è discutibile che possano votare»)
perché proprio loro gli avevano fatto perdere per un pelo la maggioranza al
Senato, il Cavaliere non si è speso molto per cambiare quelle regole. Né, sia
chiaro, si sono spesi molto tutti gli altri. Racconta il senatore Claudio Micheloni, da mezzo secolo in Svizzera, che a un certo
punto parevano tutti d'accordo sulla necessità di cambiare almeno i punti più
scabrosi della legge del 2001 che attuando l'articolo 48 della Costituzione,
assegnò alle nostre comunità estere 12 deputati e 6 senatori divisi in 4
immense circoscrizioni planetarie. E i ritocchi, di buon senso, passarono
all'unanimità. Poi, però, si sono impantanati. Il grande sogno di Mirko
Tremaglia, che per decenni aveva girato il mondo promettendo a veneti e
calabresi, pugliesi e romagnoli che avrebbero potuto dire la loro in
Parlamento, è stato via via travolto da episodi
sconcertanti. Come il peso abnorme sui destini del governo Prodi
dell'italo-argentino Luigi Pallaro che si presentò
dicendo «chiunque vinca, io starò con l'esecutivo» e per mesi tenne tutti col
fiato sospeso: «C'è Pallaro? Il governo regge o va
sotto?». O l'ingresso a Palazzo Madama di uomini come il ricco Juan Esteban Caselli, detto «El obispo», il vescovo, assai discusso per i suoi rapporti coi
militari ai tempi della dittatura di Videla e
coinvolto dal ministro dell'Economia Domingo Cavallo nelle accuse di traffico
di armi e altre faccende finite al centro del giornalismo d'inchiesta di Buenos
Aires. O ancora lo sbarco a Montecitorio di uomini come Antonio Razzi,
improvvidamente candidato da Antonio Di Pietro e protagonista, con Domenico Scilipoti, di quello che è stato il salto della quaglia più
spettacolare della legislatura che va a chiudersi. Sancito dal voto di fiducia
al Cavaliere nella drammatica giornata del 14 dicembre 2010 e spiegato nella
confessione registrata di nascosto dal collega Francesco Barbato: «Se si votava
il 28 marzo com'era in programma, io per 10 giorni non pigliavo la pensione.
Hai capito? Io ho detto: ché, se c'ho 63 anni, giustamente, dove vado a
lavorare io? In Italia non ho mai lavorato. Che lavoro vado a fare? Mi spiego?
Io penso anche per i cazzi miei. Io ho pensato anche ai cazzi miei. Non me ne
frega. Perché Di Pietro pensa anche ai cazzi suoi... Mica pensa a me. Perciò
fatti un po' i cazzi tua e non rompere più i coglioni. E andiamo avanti. Così
anche tu ti manca un anno e poi entra il vitalizio». E come dimenticare Nicola
Di Girolamo? Entrò al Senato con 25 mila voti. Poi saltò fuori, come avrebbe
accertato la magistratura, che non viveva neppure all'estero: «Ha dichiarato
falsamente di essere residente in Belgio, nel Comune di Etterbeek,
Avenue de Tervueren n. 143. Tale affermazione si è
subito rivelata falsa in quanto, tra l'altro, nel territorio del Comune di Etterbeek non esiste alcuna Avenue de Tervueren
n. 143. Il Di Girolamo risultava assolutamente sconosciuto all'anagrafe belga».
Non bastasse, emersero rapporti d'affari con la 'ndrangheta (seguiti da una
richiesta d'arresto, dalle dimissioni e dal carcere) e l'intercettazione di una
telefonata in cui l'ambiguo «imprenditore» Gennaro Mokbel
gli diceva: «Se t'è venuta la candidite Nicò e se t'è venuta già a' senatorite
è un problema tuo, però sta attento che ultimamente te ne sei uscito tre volte
che io sono stato zitto ma oggi mo' m'hai riempito proprio le palle Nicò. Capito?». Quanto il sistema fosse a rischio, del
resto, fu confermato come dicevamo dal candidato trombato Paolo Rajo, autore del video citato e girato nel garage col
telefonino. Rajo raccontò a Repubblica.it
che quel rito elettorale era così distante nella testa degli italiani «australianizzati», che l'amico siciliano organizzatore del
broglio sembrava inconsapevole della gravità: «Mi ha detto candidamente
"Ma Paolo, noi ti stiamo già aiutando, in garage c'è me figghiu cu atri boy frend che ti
stanno a riempire le tue ballot paiper»
cioè le schede. Un episodio fra tanti, simile a quello denunciato in Venezuela
da Antonella Buono che presentò intercettazioni di questo tenore: «Senta, le
volevo dire che sono arrivate le tessere elettorali e noi in famiglia siamo
dieci e sa, mi hanno detto di mandarle tutto per posta e che poi voi
v'incaricate di riempirle...». Conferma la denuncia, del resto, un dossier del
Sindacato Nazionale Dipendenti Ministero Affari Esteri. Che dopo avere spiegato
di non volere «mettere in dubbio il diritto dei cittadini italiani residenti
all'estero di esprimere il proprio voto», accusa: «Dal punto di vista della
sicurezza del voto, è opportuno segnalare che i casi in cui le schede
elettorali sono state utilizzate impropriamente da candidati senza scrupoli
abbondano. Con il sistema attualmente in vigore, infatti, risulta fin troppo
facile fare incetta di plichi elettorali con o senza la complicità di elettori
non interessati ad esercitare il proprio diritto». Così com'è, il sistema
spalanca «un vero e proprio mercato all'ingrosso delle schede elettorali».
Molto meglio, piuttosto, «l'adozione del voto remoto, con procedure totalmente
informatizzate, sul modello adottato in Francia per le elezioni politiche
2012». Obiezioni circa la sicurezza? «Facilmente superabili dalla
considerazione che esso sarebbe infinitamente più sicuro di quello attuale...».
Eppure, salvo miracoli, 18 parlamentari saranno eletti ancora con quel sistema.
E magari saranno pure determinanti...
giovedì 20 dicembre 2012
Altri numeri per l’acqua alta di Davide Scalzotto
«A Venezia 120 centimetri di acqua alta». La notizia
diffusa dai tg nazionali di norma viene data al
termine del rullo sul maltempo, quasi come una nota di colore. Di solito si
accompagna alle immagini di turisti che si divertono a sguazzare in piazza San
Marco. Eppure quella frase, buttata là quasi per abitudine di per sè è drammatica, se non apocalittica. Pensate se la stessa
notizia venisse riferita a Roma, Londra, New York: «città sommersa da 120
centimetri di acqua». Si scatenerebbero i catastrofisti di mezzo mondo. E
infatti, malgrado l’acqua alta di Venezia sia considerata un fenomeno
caratteristico (come le aurore boreali al polo nord o le onde giganti delle
Hawaii), chi non è veneziano e sente certe misure si chiede come facciano i
veneziani ogni volta a riemergere da un simile flagello. Chi conosce la città e
la marea invece lo sa: 120 centimetri significa che San Marco va sotto di 35-40
centimetri, ma anche che gran parte del centro storico (l’80% circa) è
percorribile. E che anche laddove c’è l’acqua, ci sono le passerelle. Inutile
colpevolizzare i tg e i mass media non veneziani.
Ricevono e comunicano esattamente ciò che viene loro dato. Non possono stare lì
ogni volta a spiegare che i 120 centimetri corrispondono al livello del medio
mare misurato alla Punta della Salute. Quella è roba da Superquark, mica da tg. Il problema piuttosto è a monte. Per quanto
scientificamente inappuntabili, le comunicazioni del Centro maree vanno bene
per i veneziani, ma non per il resto del mondo. E visto che l’acqua alta
interessa anche il resto del mondo, specialmente quei turisti che devono
decidere se venire o meno a Venezia, la spiegazione scientifica non basta.
Nell’epoca della comunicazione rapida, c’è qualcosa che va cambiato. L’attuale
sistema di comunicazione non è un dogma: dove sta scritto che non si possa, ad
esempio, comunicare in maniera semplice che il tal giorno, anziché i 120
centimetri di marea, ci saranno 35 centimetri di acqua alta a San Marco? Perché
non prendere la piazza - il punto più basso della città - e tarare su quella le
misurazioni? Di più: si potrebbe anche aggiungere che ci saranno 35 centimetri
in piazza San Marco, 5 (per dire) a Rialto, 25 a San Trovaso, 4 in Strada
Nuova... Insomma, dare alcuni punti di riferimento della città. In ogni caso,
che si adotti l’attuale sistema o che si cambi, gli scherzi del meteo non
saranno comunque prevedibili e uno scarto di errore ci sarà sempre. Però almeno
si dice alla gente che scenario offre Venezia. Così come non sarebbe male
spiegare in poche parole che la marea 6 ore cala e 6 ore cresce. Che se viene
annunciata acqua alta per il tal giorno, la città non resta in ammollo per 24
ore, ma dopo due ore il livello dell’acqua si abbassa. Forse sarebbe un modo
per rendere meno apocalittica la visione della città che hanno i
"foresti", per aiutare chi di turismo vive e lavora e per non creare
allarmi ingiustificati in chi deve venire a Venezia o in chi c’è già e si
barrica in hotel con pinne e boccaglio in attesa della "grande onda",
alzando gli occhi al cielo temendo un bombardamento, ogni volta che suona la
sirena. Una proposta: perché non studiare e provare a sperimentare già nei
prossimi mesi una comunicazione nuova del fenomeno acqua alta? Meno scientifica
forse, ma sicuramente più efficace e comprensibile. Sempre che, ovviamente, i
Maya non arrivino prima.
lunedì 17 dicembre 2012
Martini, un sogno ad occhi aperti di Claudio Magris Solitudine e senso di appartenenza. Così la diocesi diventa polis (di tutti)
Gregorio Magno diceva che non avrebbe capito le cose
essenziali della vita senza i suoi fratelli, senza altre persone le quali,
anche senza rendersene conto, gli avevano fatto intravvedere aspetti e valori
dell'esistenza che altrimenti forse gli sarebbero sfuggiti. Il «discernimento»,
scrive Martini richiamandosi alle parole di Giovanni Paolo II al convegno di
Palermo, è certo anzitutto personale ma anche comunitario, risultato di un
dialogo che non appanna le differenze individuali, ma le arricchisce in
un'integrazione reciproca. Nelle pagine di questo libro, come in tutta l'opera
e la vita di Carlo Maria Martini, emerge, fra i tanti problemi radicali che
esse affrontano, il nesso drammatico ma saldo fra la solitudine dell'individuo
così spesso angosciato dinanzi alla morte e alla sofferenza e il senso della
sua appartenenza, pur spesso offuscata e travagliata, a una comunità - dalla
cerchia dei legami personali alla sfera del lavoro, dalla città al Paese,
all'umanità e, per Martini, a quella Chiesa universale che, prima di essere
un'istituzione religiosa, è la coralità del genere umano in Dio, conosciuto o
non conosciuto. Probabilmente sono stati anche gli studi biblici, dei quali
egli è maestro, ad aver dato a Martini questo sentimento fortissimo dell'uomo,
da un lato perduto nell'ansia, nell'ingiustizia e nella sofferenza e dall'altro
inserito in un tessuto universale, che gli permette di chiamare qualcuno anche
dal profondo della paura. Le pagine di Martini conoscono il «buco nero» dello
smarrimento non meno di quanto lo conoscano i profeti del nichilismo, ma non ne
fanno un idolo, un assoluto negativo in cui intellettualmente può anche essere
comodo rifugiarsi. C'è in queste pagine pure un senso acutissimo della Città,
ossia della Civitas, della civiltà, del cammino
comune degli uomini, colto nelle sue spesso tragiche contraddizioni e
difficoltà eppure mai perso di vista. Quello di Martini, ha scritto padre
Sorge, è un «pensare in grande». La diocesi diventa allora una polis, la città
di tutti gli uomini e del loro bene comune nella dialettica dei diversi
orientamenti, progetti e interessi; un modello di società civile che costruisce
«un suo ethos (...) vissuto nella quotidianità» e aperto a comunità più ampie.
Non è un caso, ad esempio, che in queste pagine si proclami strenuamente la
necessità di un'Europa realmente unita, nella consapevolezza che l'autentica
unione non è negazione delle diversità, bensì loro salvaguardia. Così le Chiese
locali vengono chiamate a un «cordiale radicamento» nelle diverse culture in
cui operano, distinguendosi nettamente da ogni loro organizzazione politica e
aiutandole a capire che la propria identità non è mai astiosa e asfissiante
chiusura. Evangelizzare la Città, il Paese, l'Europa, il mondo non significa in
primo luogo convertire, bensì gettare - come nella parabola del seminatore -
nei cuori degli uomini e nel meccanismo delle istituzioni i semi evangelici di
questo consapevole valore della vita condivisa. Il credente - che secondo
Martini deve sempre ascoltare quel non credente che c'è pure in lui come in
ogni uomo - è chiamato ad essere soprattutto «pensante», sottolinea Martini,
citando Norberto Bobbio da lui molto amato, ossia a rendersi conto delle
difficoltà con cui l'amore cristiano deve confrontarsi, specie in un'epoca di
sconcertanti cambiamenti, ora liberatori ora distruttivi. Uomo di confine, l'ha
definito Massimo Cacciari. Come ogni vero uomo di confine, Martini sa capire
quando i confini vanno oltrepassati e quando vanno difesi, quando bisogna
essere un passeur e quando bisogna essere una sentinella. Come i suoi
predecessori Ambrogio o Carlo Borromeo, Martini è «defensor civitatis»
e in questa difesa dell'umano rivendica il grande ruolo della cultura e
specialmente di quella classica, che non è raffinatezza antiquaria, bensì,
insieme alla Bibbia, fondamento della nostra civiltà e intelligenza dell'umano,
nient'affatto contrapposta ai saperi scientifici che mutano il mondo e la
visione del mondo ma capace di guardarli senza paura e senza idolatrie e di dar
loro un senso. Questa cultura, basata sulla terribile sapienza greca e
sull'insuperata arte di governo dell'antica Roma oltre che sulla Bibbia, non si
oppone ad alcun più modesto ma autentico sapere di chi non ha avuto possibilità
di dedicarsi a profondi studi, bensì a quella che i tedeschi chiamano «Halbkultur» (letteralmente «mezza cultura», ma sarebbe
meglio dire mezza calzetta), presuntuosa e pacchiana, che spesso trionfa nel
teatrino pseudointellettuale. I «non pensanti», per citare ancora il passo di
Bobbio così caro a Martini, si trovano molto spesso tra chi blatera di cultura.
«Defensor civitatis», Martini sa bene che la Città -
ossia la società, la realtà - è anche un buio inferno di violenza, di
solitudine, di sofferenza senza nome; conosce - sottolinea Ferruccio Parazzoli - le «città terribili» come i grandi scrittori
che si sono calati negli inferi contemporanei. Guarda in faccia la negazione
anche più dura, come l'ha guardata Cristo nel Getsemani,
chiedendo per un attimo di sottrarsi alla sua Passione. Queste pagine sono
ricche di temi, problemi, analisi, sfide che investono la nostra vita. La
realtà scaraventa addosso al pastore come a tutti gli uomini difficoltà,
disincanti, catastrofi e sconfitte; la sua risposta è ogni volta ferma e
aperta, un «buon combattimento», per usare l'espressione di San Paolo, pronto a
raccogliere la sfida e ad accettare il nuovo, ma irremovibile nella difesa dei
valori essenziali e non negoziabili. L'etica non è un sondaggio statistico dei
costumi in quel momento prevalenti. L'episcopato di Martini si incrocia con le
tempeste di una bruciante stagione storica di trasformazioni e sconvolgimenti,
dalla corruzione al terrorismo, dal disagio sociale spesso drammatico al
confronto con le ondate di immigrati e con le loro diverse fedi e tradizioni,
dalle ripercussioni del crollo del comunismo al terremoto della politica
italiana, dal dominio di una sfrenata e autodistruttiva corsa a un profitto
irreale a una crisi economica che impoverisce il Paese. «Quest'uomo misterioso
che parlava con eccessiva lentezza», ha scritto Ferruccio de Bortoli, sapeva «squarciare il velo della sofferta
rassegnazione». Nell'azione e nel pensiero di Martini la fede più solida si
unisce a un pragmatismo agguerrito, saldando così l'etica della convinzione a
quella della responsabilità. Mirabili, per citare solo qualche esempio, le
pagine sul rapporto tra la riaffermazione primaria della famiglia e la tutela
di altre forme di convivenza affettiva, o quelle, insieme ferme e aperte, sulla
caduta delle elementari evidenze etiche. Le difficoltà, spesso acri per i
cristiani, non vengono certo annacquate, ma Martini non vuole cristiani ansiosi
o incattiviti. Come l'individuo, pure la Chiesa deve accettare le sfide del
tempo, proprio perché il cristianesimo è la fede che si è più calata, calando
anche Dio, nella storicità e nella precarietà del tempo. Questo ha portato
Martini a criticare a viso aperto, con durezza, molte carenze, cedimenti,
infedeltà della Chiesa e a porsi talora in contrasto con la Curia vaticana su
alcuni temi essenziali: la libertà di credere e di scegliere secondo il dettame
della propria coscienza, il rischio di vivere, il dialogo ecumenico,
fondamentale per chi, come lui, si è nutrito per tutta la vita del pensiero e
della cultura ebraica, pastore di Milano ma altrettanto cittadino di
Gerusalemme. In Martini vive lo spirito del Concilio, appreso pure alla grande
scuola innovatrice della Chiesa tedesca, che con Augustin
Bea, Joseph Ratzinger e altri, è stata, più di mezzo secolo fa, portatrice
delle istanze più avanzate e audaci del Concilio stesso, mettendosi talora in
contrasto con la Curia romana d'allora. Il rigore filologico del grande
studioso, che non transige su una virgola del testo, diventa rigore morale
dinanzi ad ogni violazione; il metodo induttivo della ricerca, che risale alla
verità partendo dal basso, è di per sé, ha osservato Marco Garzonio,
libera indagine, opposta al metodo deduttivo che fa dogmaticamente discendere
dall'alto la verità sul reale. Martini non si è lasciato sconcertare, come
forse è accaduto a Ratzinger, da alcune sfasate e insensate derive assemblear-pulsionali che hanno malamente accompagnato lo
spirito innovatore di quegli anni, intimorendo talora alcuni suoi stessi
protagonisti; senza sgarrare di un millimetro dai capisaldi della fede e della
morale cristiana, non ha permesso ad alcun confuso disordine di farlo arretrare
dalla sua ferma e pacata apertura. Ha conosciuto, prima e dopo la sua morte,
molte livide ostilità da parte dell'ala conservatrice della Chiesa, forse
enfatizzate pure dalla vulgata mediatica, anche se egli si è definito
«tradizionalista»; infatti l'autentica tradizione, come scriveva anni fa
Rodolfo Quadrelli, forte saggista e poeta cattolico avverso ad ogni
progressismo di maniera, è la continuità della Chiesa che cresce creativamente
fedele a se stessa, senza snaturarsi e irrigidirsi. Nega questa creativa
tradizione sia chi vuole bloccare la Chiesa nel passato, come se poi fosse
morta e sclerotizzata, sia chi la vuole far cominciare con i fermenti del
Concilio, come se prima fosse in catalessi. Martini sapeva che il Concilio le
aveva impresso un nuovo grande slancio, una peculiare forza di parlare al
mondo. Martini era maestro di laicità, ossia di quella capacità di distinguere fra
ciò in cui si può credere e ciò che si può dimostrare; laicità oggi minacciata
dal fondamentalismo clericale e da quello laicista egualmente intolleranti. Da
questo spirito autenticamente laico, nasce una delle più forti preoccupazioni
espresse da Martini, anche in queste pagine: la preoccupazione per la
sopravvivenza dell'ethos politico, sempre più cancellato dalla
politica-spettacolo, dall'indecenza sfrontata, dall'esibita negazione delle più
elementari virtù civili. Oggi è al potere una colloidale classe sociale non più
socialmente definibile, se non con quel termine con cui Marx
designava il sottoproletariato oppresso e sfruttato al punto di aver perso
coscienza di sé, proletariato intellettualmente, moralmente e politicamente
«pezzente» (Lumpenproletariat), parola che oggi ben
si adatta a definire una gelatinosa classe media generale che non si può
classificare né bassa né media né alta, una vaga e indifferente «gente». Anche
la collaborazione di Martini al Corriere, negli ultimi anni e in quelli lontani
della stagione più difficile del Corriere - quelle «schegge lucenti di cultura
e di grazia dei suoi articoli», come li chiamava il direttore di allora,
Alberto Cavallari - è stata una prova di questo
impegno civile. Evangelizzare la nostra società, nel senso proprio e in quello
lato, è un compito così arduo da sembrare perfino a Martini un sogno, anche se,
come egli precisa, non certo inteso quale fuga nella fantasia. «Lasciateci
sognare», dice il titolo di questo libro, titolo inadeguato al libro stesso,
che non è l'invocazione di un'anima bella a essere lasciata in pace nelle sue
nobili aspirazioni lontane dalla realtà, ma è un buon combattimento a occhi ben
aperti sulla realtà, per cambiarla e non solo per sognare di cambiarla, per
impedire che ci si appisoli davanti al male.
Oltre l’indifferenza di Pierangelo Sequeri Questo tempo per vedere i frutti dell’avidità, di cose e di sé
Che dobbiamo fare?», dice la folla. La domanda è
rivolta a Giovanni il Battista, e siamo all’inizio di tutto. Giovanni percorre
l’intera regione del Giordano, restituendo vita a un’antica parola di Dio:
«Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore, raddrizzate i
suoi sentieri». La parola viene dal libro di Isaia. La vita ce la mette
Giovanni: «Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira imminente?
Fate dunque opere di conversione». (E non mi venite a dire che siete figli di
Abramo e avete già dato. Incominciate da voi stessi). Quanto alla domanda, che
in molti gli rivolgono, la risposta di Giovanni è molto concreta: chi ha il
doppio di tutto, può campare benissimo anche con la metà; e chi ha potere sugli
altri si accontenti del giusto, senza estorcere niente a nessuno. In altre
parole, non siate ingordi di beni, non abusate del potere. Per il resto, Colui
che deve venire, aprirà il vostro cuore con Spirito santo e fuoco: e saprete
davvero chi siete e che cosa valete. Non è poi così enigmatico e fumoso, questo
ammonimento, vero? Volessimo riassumerlo, per la nostra condizione odierna,
potremmo dire così. La prima mossa, per sgomberare il terreno al Signore che
viene, è questa: mettere risolutamente fuori gioco l’avidità. Deve essere un
soprassalto collettivo, una conversione della mente, uno scatto di orgoglio.
Domandiamoci tutti insieme: che razza di stile di vita è mai il nostro? Figli
di Abramo, figli di Kant, figli di Mazzini o di chi
volete voi: ma adesso, che cosa siamo diventati? Non meno di un moto collettivo
di pura dignità ci è necessario, ormai. Ci siamo troppo intorpiditi,
sottovalutando il pericolo. Fino all’istupidimento. L’avidità è un virus che
lavora sottotraccia, ramifica nel sangue e nel cuore: sperpera beni che possono
benissimo essere condivisi, genera conflitto e abuso di potere, diffonde
arroganza e insegna a trattare male tutti. Non te ne accorgi, e a un certo
momento cresce l’assuefazione a ringhiarsi addosso, a
sbeffeggiare gli onesti, a diffidare tutti, a essere indifferenti a tutti.
Ecco, a quel punto, l’avidità ha fatto il suo lavoro di erosione: si incrinano
i pilastri, cedono i ponti. L’assuefazione all’avidità (anche in chi non ci
guadagna niente) ha abbassato la soglia di allerta, ha liberalizzato la soglia
della decenza, ha imparato a giustificarsi come un diritto. Infine, si insedia
come uno scopo. Nella scena evangelica seguente, arriva la rivelazione che ci è
necessaria. Subito dopo il battesimo di Giovanni, Gesù entra nella sinagoga di Nazaret, riceve il rotolo del profeta Isaia – sempre lui –
e trova un altro passo. «Lo Spirito del Signore è su di me; per questo mi ha
consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto
messaggio». I segni? Sono segni di guarigione dal male, di liberazione dalla
schiavitù, di restituzione della speranza. Sono i segni dello Spirito al
lavoro. E del fuoco che riscalda l’umana convivenza, ridestando speranza per il
suo riscatto, capace di un calore che Dio soltanto può infondere. È la pars construens, il lato costruttivo che ci mancava. Il vangelo
di Gesù rilancia, non si accontenta del pareggio. Colmati i fossati, spianati
gli ostacoli, deve rientrare in circolazione la passione di non lasciare
indietro nessuno, l’entusiasmo di riaggregare i dispersi e gli smarriti, la
gioia di dividere le cose buone, i pensieri migliori, i fondamentali
dell’umano, i legami che ci sostengono l’anima. L’effetto implacabile
dell’avidità, infatti, è l’indifferenza. Può sembrare, all’inizio, che
l’avidità accenda il desiderio. Lo ammazza invece. L’avidità trasforma la città
in un formicaio impazzito. L’indifferenza desertifica l’anima. Come già
l’avidità, anche l’indifferenza, ora, sta cercando di accreditarsi ai piani
nobili (si fa per dire) della coscienza collettiva. L’indifferenza ha il ciglio
asciutto e razionale, non si aspetta più niente da Dio (e neppure dagli
uomini). È agnostica, nella sua versione elegante, anche verso la moralità
condivisa. Istruisce l’individuo emancipato a pensare semplicemente a se
stesso, come fosse una superiore forma di modestia intellettuale (lo è, in
effetti, ma in un altro senso). L’indifferente non pretende di essere sostegno
per nessuno, e coltiva l’ambizione di essersi fatto esclusivamente da sé (a
parole). Questa perfetta indifferenza a Dio e al prossimo non è autonomia. L’indifferentismo
è parassitismo. Non c’è che Dio, in Spirito e fuoco, che possa illuminarci e
riscaldarci al riguardo. Il Signore viene, e ce lo spiega: con parole e segni
inequivocabili. Se questa volta lo lasciamo arrivare fino al cuore, ci
sentiremo come liberati da un brutto sogno. Impareremo anche a commuoverci e a
sorriderci, dalla voglia che avremo di ricominciare insieme.
L’appello del Pontefice: “I potenti non rubino” di G.G.V.
Città del Vaticano - «La conversione comincia
dall'onestà e dal rispetto degli altri: un'indicazione che vale per tutti,
specialmente per chi ha maggiori responsabilità». Benedetto XVI, all'Angelus di
ieri, si è rivolto in particolare a chi ha potere e incarichi pubblici
ricordando il settimo comandamento: non rubare. Una riflessione che parte dalla
risposta che Giovanni Battista, nel Vangelo, dà ai «pubblicani», gli esattori
delle tasse per conto dei romani: «Già per questo i pubblicani erano
disprezzati, e anche perché spesso approfittavano della loro posizione per
rubare», ha spiegato il Papa. «Ad essi il Battista non dice di cambiare
mestiere, ma di non esigere nulla di più di quanto è stato fissato. Il profeta,
a nome di Dio, non chiede gesti eccezionali, ma anzitutto il compimento onesto
del proprio dovere». Insomma, «il primo passo verso la vita eterna è sempre
l'osservanza dei comandamenti, in questo caso il settimo: non rubare». Giovanni
si rivolge anche ai soldati, «categoria dotata di un certo potere e quindi
tentata di abusarne», e dice loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a
nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». Parole di «grande concretezza» che
valgono ora come allora, ha spiegato il Pontefice: «Dal momento che Dio ci
giudicherà secondo le nostre opere, è lì, nei comportamenti, che bisogna
dimostrare di seguire la sua volontà. E proprio per questo le indicazioni del
Battista sono sempre attuali: anche nel nostro mondo così complesso, le cose
andrebbero molto meglio se ciascuno osservasse queste regole di condotta». Del
resto vale per tutti, è alla folla che Giovanni dice: «Chi ha due tuniche, ne
dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Benedetto XVI
commenta: «Qui possiamo vedere un criterio di giustizia, animato dalla carità.
La giustizia chiede di superare lo squilibrio tra chi ha il superfluo e chi
manca del necessario; la carità spinge ad essere attento all'altro e ad andare
incontro al suo bisogno, invece di trovare giustificazioni per difendere i
propri interessi».
martedì 11 dicembre 2012
mercoledì 5 dicembre 2012
I distruttori delle riforme di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi L’insostenibile peso della burocrazia
Si dice spesso che le riforme non si fanno perché lo
slancio riformatore di molti governi (compreso quello attuale) è bloccato dai
partiti, i quali in Parlamento difendono gli interessi di chi, per effetto di
quelle riforme, perderebbe i propri privilegi. Vero, ma non è l'unico scoglio.
Un altro ostacolo, altrettanto importante, è frapposto dalla burocrazia e dai
suoi alti dirigenti. Un esempio: da oltre sei mesi si discute di come eliminare
i sussidi e le agevolazioni di cui godono talune imprese (senza vi sia alcuna
evidenza che questi aiuti favoriscano la crescita), in cambio di una riduzione
del cuneo fiscale, cioè restringendo la forbice che separa il costo del lavoro
per l'impresa dal salario percepito dal lavoratore. È una scelta con la quale
concordano sia Confindustria sia i sindacati. Ma la proposta, pur auspicata dal
presidente del Consiglio, non è neppure arrivata in Parlamento: da mesi la
burocrazia la blocca. Perché? Semplice: eliminare questo o quel sussidio
significa chiudere l'ufficio ministeriale che lo amministra e assegnare il
dirigente che lo guida a un diverso incarico. Ciò per lui significa perdere il
potere che deriva dall'amministrare ingenti risorse pubbliche. È così che i
dirigenti si oppongono sempre e comunque a riduzioni della spesa che
amministrano, indipendentemente dal fatto che serva, o meno, a qualcosa. Ma
basta questo per bloccare una riforma che anche i partiti in Parlamento
auspicano? Perché la burocrazia ha questo potere? Fino a qualche anno fa i
funzionari erano di fatto inamovibili: i ministri andavano e venivano, ma i
dirigenti dei ministeri rimanevano. Non è più così. Oggi gli alti funzionari si
possono sostituire, e tuttavia nulla è cambiato. Il motivo del loro potere è
più sottile e ha a che fare con il monopolio delle informazioni. La gestione di
un ministero è una questione complessa, che richiede dimestichezza con il bilancio
dello Stato e il diritto amministrativo, e soprattutto buoni rapporti con la
burocrazia degli altri ministeri. I dirigenti hanno il monopolio di questa
informazione e di questi rapporti, e hanno tutto l'interesse a mantenerlo.
Hanno anche l'interesse a rendere il funzionamento dei loro uffici il più opaco
e complicato possibile, in modo da essere i soli a poterli far funzionare. E
così quando arriva un nuovo ministro, animato dalle migliori intenzioni
(soprattutto se estraneo alla politica e per questo più propenso al
cambiamento), a ogni sua proposta la burocrazia oppone ostacoli che appaiono
incomprensibili, ma che i dirigenti affermano essere insormontabili. E comunque
gli ricordano che prima di pensare alle novità ci sono decine di scadenze e adempimenti
di cui occuparsi: non farlo produrrebbe effetti gravissimi. Spaventato, il
ministro finisce per affidarsi a chi nel ministero c'è da tempo. È l'inizio
della fine delle riforme. E se per caso il governo ne vara qualcuna senza
ascoltare la burocrazia, questa mette in campo uno strumento potente: solo i
dirigenti, infatti, sono in grado di redigere i decreti attuativi, senza i
quali la nuova legge è inefficace. Basta ritardarli o scriverli prevedendo
norme inapplicabili per vanificare la riforma. Prendiamo il caso delle pur
timide liberalizzazioni varate in primavera con il decreto «cresci Italia»:
come ricordava il Corriere il 19 novembre, fino a poche settimane fa, su 53
regolamenti attuativi ne erano stati emanati soltanto 11. Che fare? La prima decisione
di ogni nuovo ministro deve essere la sostituzione degli alti dirigenti del
ministero che gli è stato affidato, a partire dal capo di gabinetto. Il
ricambio deve cominciare da coloro che da più tempo occupano lo stesso posto e
per questo sono spesso i più conservatori, cioè i meno propensi al cambiamento.
I costi sono ovvi: un nuovo dirigente ci metterà un po' a prendere in mano le
redini del ministero. Ma è un costo che val la pena pagare, quanto più si vuol
cambiare. Certo, c'è il rischio che le nomine siano solo politiche, e cioè che
invece di dirigenti preparati il ministro scelga in base alle appartenenze
politiche. Questo è possibile, ma saranno poi gli elettori a decidere se un
governo ha cambiato qualcosa. E i cittadini giudicheranno un governo anche
dalla qualità delle persone cui ha affidato l'amministrazione dello Stato. È
comunque un sistema migliore di quello di oggi in cui dirigenti non eletti
ostacolano e influenzano l'operato di governi eletti direttamente, o
indirettamente come nel caso di questo governo «tecnico».
martedì 4 dicembre 2012
venerdì 30 novembre 2012
A proposito di maree
Sta Mattina ore 6.30
suonano le sirene per allertarci ad una marea di 130 cm sul medio
mare , dopo un' oretta arriva una mail dicendo che a causa del vento
cambiato la marea salirà fino a 105 cm , ma ieri sera la previsione
era di 110 cm .
Allora mi chiedo , visto
anche tutti i discorsi sull'Open data che si stanno facendo in
questi giorni e visto che l'ing Canestrelli ha detto che l'algoritmo
per le previsioni è vecchio, perchè non mettere on line tutti i
dati statistici sulla marea e lanciare un appello perchè qualche
cervellone faccia gratuitatamente un algoritmo nuovo?
Non avevano fatto inoltre
degli accordi con la Croazia per avere dei dati più precisi per
elaborare le previsioni ?
E tanto per finire com'è
che la nostra amministrazione non è riuscita a strappare una
convenzione conveniente con l'operatore telefonico deputato per gli
sms di allertamento e li paga ancora 8 centesimi?E' stato fatto un
bando per questo servizio ? Se siamo in clima di risparmio ,
potremmo anche cominciare da queste piccole cose no?
Anna Brondino
mercoledì 28 novembre 2012
Valori etici e sociali, la bussola in politica di Lorenzo Rosoli La diocesi di Milano ricorda i “principi irrinunciabili” in vista delle elezioni. Chi si candida si dimetta dagli incarichi ecclesiali
Cattolici e politica. La bussola? I «principi
irrinunciabili» del magistero ecclesiale sui temi etici e sociali. Lo stile? Il
rigore morale, l’attenzione alla gente, lo spirito di servizio, la
professionalità. La capacità «non solo di rifiutare ogni forma di corruzione ma
anche di anteporre il bene comune ai propri anche legittimi interessi di
parte». Queste – si legge in una nota del Consiglio episcopale della diocesi di
Milano – siano le coordinate di quanti, «a maggior ragione i cattolici», si
candidano a servire la Lombardia e il Paese, consapevoli della posta in gioco:
«In un momento in cui il perdurare della crisi economica sta generando paure e
insicurezze che rendono più fragile il legame tra i cittadini, occorre che la
politica sappia elaborare risposte all’altezza della situazione, capaci non
soltanto di farci uscire dal periodo di difficoltà, ma di migliorarci. Un clima
di fiducia – prosegue la nota, diffusa ieri – sarà realizzabile se insieme si
lavorerà per salvaguardare dall’erosione dell’individualismo le questioni
etiche rilevanti, promuovendo i valori ispirati alla retta ragione e al
Vangelo». Con questa nota il Consiglio episcopale diocesano – l’organismo che
raccoglie i più stretti collaboratori del cardinale arcivescovo di Milano,
Angelo Scola – «offre alcune indicazioni per vivere con responsabilità» questo
tempo, «all’avvio di una lunga campagna elettorale che culminerà con le
elezioni del Consiglio regionale lombardo e del Parlamento della Repubblica
italiana». Nessuna ingerenza della gerarchia cattolica, nessuna lesa laicità:
«La Chiesa – spiega la nota attingendo all’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI – non pretende minimamente
d’intromettersi nella politica degli Stati. Ha però una missione di verità da
compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell’uomo, della
sua dignità, della sua vocazione». E questo tempo chiama le comunità cristiane
ad una «necessaria e urgente opera educativa» perché tutti siano sollecitati
alla «partecipazione attiva e responsabile a questi appuntamenti elettorali».
La sfida: contrastare la tentazione crescente del disimpegno e del
disinteresse sui temi del bene comune. «A nessuno deve sfuggire l’importanza
dell’esercizio del diritto-dovere del voto responsabilmente espresso». Perciò
si auspica che «il confronto tra le parti sia sereno e leale» e «si svolga su
programmi ben articolati». Ma serve anche «l’impegno attivo di un numero sempre
maggiore di laici cristiani nell’attività amministrativa e politica». Non sarà
l’antipolitica a guarire il Paese dalla cattiva politica. Ma per la buona politica
serve una bussola affidabile. «I cattolici – prosegue la nota – faranno
riferimento ai principi irrinunciabili dell’insegnamento del Magistero della
Chiesa sulla famiglia, aperta alla vita, fondata sul matrimonio tra un uomo e
una donna, sul rispetto per la vita dal suo concepimento al termine naturale,
sulla libertà religiosa, sul diritto alla libertà di educazione dei genitori
per i propri figli, sulla tutela sociale dei minori e delle vittime delle
moderne forme di schiavitù, sullo sviluppo di un’economia che sia al servizio
della persona e del bene comune, sulla giustizia sociale, sul ruolo da
riconoscere ai principi di solidarietà e di sussidiarietà, sulla pace come
valore supremo a cui tendere». Su questi punti si cerchi di costruire «un
consenso il più possibile condiviso e diffuso». Tutti i candidati, «a maggior
ragione i cattolici», si impegnino a «ridare fiducia al Paese e ai suoi
abitanti, presentando programmi e proposte realmente tese a costruire il bene
comune: non prevalga la tentazione del disfattismo». E siano «esemplari» per
rigore morale, disinteresse, competenza: solo così sarà possibile rafforzare la
«credibilità» della politica.
Si avvicinano le elezioni. E l’«opera educativa
delle comunità cristiane» sui temi del bene comune e in vista di una
«partecipazione attiva responsabile» è sempre più «necessaria e urgente». Ma
vanno evitate in ogni modo «strumentalizzazioni». Perciò la nota del Consiglio
episcopale milanese, diffusa ieri, ricorda «le disposizioni diocesane» in base
a cui parrocchie, scuole cattoliche, associazioni e movimenti non devono
mettere sedi e strutture a disposizione delle iniziative di singoli partiti o
formazioni politiche. «Si vigili – prosegue la nota – per evitare che le
attività pastorali vengano strumentalizzate a fini elettorali». Chi appartiene
a organismi ecclesiali, «a maggior ragione» chi occupa cariche di rilievo, se
intende candidarsi, si consideri sospeso da quegli organismi; se eletto,
lascerà l’incarico. Chi ha incarichi negli organismi e nelle istituzioni
ecclesiali, si astenga «rigorosamente» da ogni coinvolgimento elettorale. E lo
stesso facciano sacerdoti, diaconi e consacrati.
La navigazione della fede di Gianfranco Ravasi
Il tema della fede si può ignorare ma non evitare.
Spesso, infatti, incrocia la strada persino di quelli che stanno andando
altrove. San Paolo, che pure di questo era ben consapevole, si stupiva ancora
leggendo e citando Isaia mentre scriveva ai Romani: «Isaia arriva fino a dire: Sono
stato trovato anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a
quelli che non mi invocavano» (10, 20). In piena rivoluzione sovietica, nel
1918, Aleksandr Blok componeva il poema I dodici e
nel diario era costretto ad annotare: «Quando l’ebbi finito, mi meravigliai io
stesso: perché mai Cristo? Davvero Cristo? Ma più il mio esame era attento, più
distintamente vedevo Cristo. Purtroppo Cristo. Purtroppo proprio Cristo!». In
questo Anno della fede vorremmo tentare - attraverso una serie di articoli,
simili a vere e proprie puntate tematiche - qualche sondaggio molto libero e
non sistematico nell’orizzonte dell’incredulità che, però, si incontra o si
scontra con la fede, reagendo nelle forme più diverse. All’amico Janouch, che lo interrogava su Cristo, Kafka rispondeva: «È
un abisso di luce, bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi». Lo
scrittore franco-rumeno Emile Cioran, che si dichiarava di «professione atea»,
confessava di continuare a spiare Dio e, disarmato, annotava: «Quando voi
ascoltate Bach, vedete nascere Dio. Dopo un oratorio, una cantata o una
Passione, Dio deve esistere. Pensare che tanti teologi e filosofi hanno
sprecato notti e giorni a cercare prove sull’esistenza di Dio, dimenticando la
sola!». L’esperienza di Paolo ci fa comprendere che la fede non è solo una
questione dell’uomo ma anche di Dio. È lui che si mette sulle vie dell’umanità
e si para innanzi alla sua creatura: sta alla persona, con la sua libertà,
fermarsi o scansarlo o ignorarlo. Emblematica è la scena folgorante
dell’Apocalisse (3, 20) ove Cristo sta alla porta e bussa. Se non passasse, noi
resteremmo chiusi nella stanza della nostra storia e della nostra razionalità.
Egli, però, interviene e tutta la storia della salvezza è proprio questo, cioè
il passaggio del «Dio di carne che non sta cacciato in alto, incagliato tra le
stelle», come scriveva il poeta russo Majakovskij nella sua raccolta lirica
150.000.000. Tuttavia è indispensabile in quella scenetta dell’Apocalisse,
un’altra componente: l’apertura della porta, ossia l’atto libero dell’uomo.
Grazia e fede sono un binomio inscindibile, perché noi non siamo stelle o
pietre o semplici bestie istintuali; in noi pulsa la libertà, la volontà, la
scelta. Solo dopo questo incontro tra noi e Lui, scatta l’intimità della
comunione: «io cenerò con Lui ed egli con me». Jean Cocteau nel suo Diario di
uno sconosciuto curiosamente invertiva uno schema naturale: «Prima trovare, poi
cercare». Questa è, appunto, la logica della fede, che assegna il primato alla
grazia (“trovare”), ma ribadisce la necessità della libertà (“cercare”). Per
questo, Bultmann aveva intitolato la sua raccolta di
saggi Credere e comprendere perché la fede non è frutto di un itinerario
meramente razionale, di un sillogismo stringente, di una dimostrazione
matematica. È il Credo ut intelligam,
il credere per capire di Agostino, seguito da Pascal secondo il quale «le cose
umane bisogna capirle per amarle; le cose divine bisogna amarle per capirle».
Nelle Lettere di Nicodemo lo scrittore polacco Jan Dobraczyński
osservava: «Vi sono misteri nei quali bisogna avere il coraggio di gettarsi per
toccare il fondo, come ci gettiamo nell’acqua, certi che essa si aprirà sotto
di noi. Non ti è mai parso che vi siano delle cose alle quali bisogna prima
credere per poterle capire?». L’immagine del mare in cui gettarsi - che Robert Musil nel suo Uomo senza qualità aveva adottato per parlare
della verità (un mare in cui procedere in ricerca) - è una delle simbologie più
frequenti applicate al percorso di fede, a partire da sant’Agostino con l’idea
delle diverse navigazioni necessarie alla conoscenza umana, razionale e
teologica. Uno dei più significativi filosofi del Novecento, Ludwig
Wittgenstein, definiva la religione come «il fondale marino più profondo e
calmo, che rimane tranquillo per quanto alte siano le onde in superficie». Già
il grande scrittore mistico cinquecentesco spagnolo Frey
Luis de León riconosceva che «in Dio si scoprono nuovi mari quanto più si
naviga». Se è lecita una testimonianza personale, dirò che, avendo approntato
in questo mese una mappa essenziale della fede cristiana, l’editore “laico” non
ha avuto esitazione nell’assegnarmi il titolo Guida ai naviganti, anche perché
io stesso nel tracciare narrativamente l’itinerario
del credere ricorrevo proprio a questa metafora. Un aforisma orientale, però,
va oltre mettendo in scena due uomini che s’addentrano «nel grande mare della
religione: uno ne uscì vivificato e trasformato, l’altro vi annegò». Aveva
ragione, pur nel suo scetticismo, il filosofo settecentesco inglese David Hume
quando dichiarava che «gli errori della filosofia sono sempre ridicoli, quelli
della religione sono sempre pericolosi». Il fondamentalismo radicale lo
insegna. Eppure la nostalgia dell’infinito è attaccata al cuore dell’uomo e la
necessità di immergersi e di navigare è insita all’anima e alla mente che cerca
di trascendere gli orizzonti limitati. Aveva, perciò, ragione anche un altro
autore tendenzialmente scettico come Anatole France
quando scriveva che «per compiere grandi passi, non dobbiamo solo agire ma
anche sognare, non basta pianificare, bisogna anche credere». In questo
infinito, che ci accoglie nel suo grembo, respira il mistero di Dio al punto
tale che un maestro indiano al discepolo che gli chiedeva di aiutarlo a trovare
Dio replicava che nessuno lo poteva guidare «per la stessa ragione per cui
nessuno può aiutare un pesce a trovare l’oceano». Certo è che non tutti si
azzardano in questa navigazione, né sono consapevoli delle onde dell’oceano che
pure battono sulla loro pelle, preoccupati come sono di tutelare i confini
della loro isola creaturale, finita e chiusa in se stessa (per usare un’altra
immagine del filosofo Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus). È questa la vera incredulità, cioè
l’indifferenza rispetto a ogni altro quesito che riguardi l’Oltre e l’Altro
trascendenti. Sartre nella sua opera Parole descrive la sua adolescenza con un
padre protestante, che muore quando egli ha due anni, mentre la madre cattolica
ripara dai nonni indifferenti. Alla fine confessa di essere stato condotto
all’incredulità «non dai conflitti dei dogmi, bensì dall’indifferenza dei miei
nonni». Anche la sua compagna, Simone de Beauvoir,
rievoca la sua giovinezza nelle Memorie di una ragazza perbene con una madre
devota e un padre indifferente. Alla fine la scelta è chiara: «Dio proibiva una
quantità di cose ma non esigeva niente di positivo, all’infuori di qualche
preghiera e di qualche pratica che non modificavano la vita». Simone abbandona,
così, la via religiosa, deformata da questa concezione così minimalista e
piccolo-borghese, espellendola dal suo orizzonte intellettuale ed esistenziale.
L’indifferentismo religioso è tendenzialmente il nome nuovo e più pericoloso
dell’ateismo nella società secolarizzata contemporanea. Esso era già delineato
da Cecilia, la protagonista della Noia di Alberto Moravia: «La religione è
noiosa, al convento ho sempre avuto impressione che le monache s’annoiassero
come si annoiano i preti e in genere tutti quelli che si occupano di religione.
Guardate mentre stanno in chiesa, vedrai che non ce n’è nessuno che non s’annoi
da morire». Dio non è combattuto ma ignorato; non è oggetto di contestazione ma
è considerato un tema insignificante, fastidioso e noioso. Spesso alla base c’è
l’equivoco che identifica tout court religiosità generica e fede autentica. La
pratica religiosa, infatti, di non pochi cristiani si rivela segnata da
ipocrisia, da compromessi morali, da un’adesione passiva alle tradizioni, da un
perbenismo etico, da interessi politici e così via. Ma questa, come insegna
Cristo, è piuttosto una malattia della religione. Eppure, unita al consumismo,
alla superficialità imperante, alla caduta della morale, questa patologia
genera in molti l’estinzione dell’interrogazione spirituale. Augusto Del Noce,
in un suo intervento al primo Meeting di Rimini poco prima della morte avvenuta
nel 1989, sottolineava che «un nuovo avversario del cristianesimo è cresciuto
negli ultimi decenni: la forma di religione propria della società opulenta e
consumistica. È un avversario più potente e pericoloso del comunismo ateo». In
questo orizzonte secolarizzato e spiritualmente grigio, vale la sarcastica
considerazione del poeta e cantautore Jacques Prévert:
«Dio, sorprendendo Adamo ed Eva, disse loro: Continuate, ve ne prego; non
disturbatevi per me. Fate come se io non esistessi!». Il suo nuovo “Padre
nostro” è, allora, questo: «Padre nostro che sei nei cieli, restaci!». Ecco,
allora, un interrogativo di base: nell’attuale cultura “debole” e “liquida” gli
interrogativi forti e solidi della teologia hanno ancora la possibilità di
risuonare? È la domanda che lo stesso cardinale Joseph Ratzinger poneva sul
tappeto nell’ormai famoso dialogo con Habermas:
«L’eliminazione graduale della religione, il suo superamento dev’essere considerato come un progresso necessario
dell’umanità, affinché essa giunga sulla strada della libertà e della
tolleranza universale?». L’impressione realistica - al di là delle molteplici
analisi condotte (si pensi a quella imponente offerta dal saggio L’età secolare
di Charles Taylor) - è che il “disincanto” e la “de-divinizzazione” (Entgötterung) operata dall’indifferenza religiosa tipica
della secolarizzazione abbiano creato non tanto un progresso liberatorio quanto
piuttosto un inaridimento morale ed esistenziale e uno svuotamento di senso. La
pur nobile fiducia nella tecnoscienza riesce a
evadere solo le domande sulla “scena” dell’essere e dell’esistere, non sul loro
“fondamento” e significato. Alla fine lo statuto di inerzia religiosa, che
abbiamo abbozzato e che pone problemi seri e complessi all’evangelizzazione,
alla pastorale e alla stessa cultura ecclesiale, può essere illustrato con la
suggestiva ripresa dell’episodio evangelico di Zaccheo
operata da Montale nella poesia intitolata appunto Come Zaccheo:
«Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro / per vedere il Signore se mai passi. /
Ahimé, non sono un rampicante ed anche / stando in
punta di piedi non l’ho visto». Fermiamoci per ora qui nel nostro viaggio
dedicato al confronto spesso dialettico tra fede e cultura. Altre tappe sono
possibili: ne selezioneremo in futuro alcune, nella consapevolezza che non sarà
facile percorrere tutti i sentieri e i meandri del credere, memori delle
battute del Faust di Goethe: «Chi oserà dire: Io credo in Dio? / Puoi domandare
a preti o a saggi / e la risposta sembrerà prendere in giro / chi ha fatto la
domanda (I, 3426-30)».
domenica 25 novembre 2012
sabato 24 novembre 2012
Giornata contro la violenza sulle donne
Domani è la giornata
contro la violenza sulle donne , ci dobbiamo fermare a riflettere
come mai nonostante tutte le campagne fatte dalle istituzioni ci
siano ancora molte donne che subiscono maltrattamenti psicologici e
fisici e che soffrano in silenzio.
Una legge antistalking è
stata approvata , ma forse il percorso di denuncia è ancora troppo
difficile e il coraggio e la forza d'animo a volte non sono
sufficienti.
Il problema non è solo
“fisico” , ma anche ed essenzialmente culturale. Per vedere un
po' di luce infondo al tunnel dobbiamo fare un grossissimo lavoro di
educazione nelle nuove generazioni e di riconversione alla dignità
di tutte le persone negli adulti .
Mille sono le sottili
discriminazioni che le donne vivono quotidianamente , sto pensando
all'assenza di parcheggi rosa ,e di casse per le donne incinte ,
alle dimissioni in bianco che ancora oggi molte donne sono costrette
a firmare , ai licenziamenti delle fabbriche in crisi ( le prime sono
le donne) , al partime e al telelavoro che molte volte non vengono
concessi …
Quindi , fermo restando
che la violenza su un essere umano va condannata comunque , mi sento
di dire alle donne che sono im molti casi deputate all'educazione dei
figli, cominciamo dalle piccole cose di tutti i giorni ad educare i
maschi fin da piccoli alle pari opportunità
.E' un'occasione
straordinaria di trasmissione di un sapere che renderà veramente
migliore la nostra soscietà
martedì 20 novembre 2012
Attenzione da una Cei che aspetta di capire meglio di Massimo Franco
La benedizione non c'è: non ancora, almeno. E non è
detto che arrivi, e neppure che sia attesa. La Chiesa cattolica vuole capire bene
che cosa sia spuntato nell'area moderata durante il fine settimana; quanto sia
in linea con i convegni di Todi promossi nell'ultimo anno; e se l'iniziativa
che ha come capifila il presidente della Ferrari, Luca Cordero di Montezemolo,
e il ministro della Cooperazione, Andrea Riccardi,
moltiplicherà davvero la partecipazione in nome di un progetto di governo. Si
sa che la Cei nell'ultima fase ha sostenuto il premier; e che i rapporti
personali fra Benedetto XVI e Monti sono ottimi. Ma sul piano politico, il
ruolo della Chiesa rimane segnato dalle convulsioni della Seconda Repubblica.
Questo spiega l'attenzione e insieme la cautela nei confronti di quanto si sta
muovendo. L'episcopato appare diviso fra chi in prospettiva punta ancora sul
centrodestra; e chi, pur volendo la nascita di un altro «centro», teme sia
privo di forza elettorale e subalterno alla sinistra. Alcune voci accreditano
una velata freddezza dei vertici della Cei, che avrebbero voluto un riferimento
esplicito alla difesa dei «valori non negoziabili» (no all'aborto,
all'eutanasia, ai matrimoni fra omosessuali): sebbene non risulti, si fa
notare, una richiesta in tal senso. Ma forse il vero spartiacque è, in Italia
come in altri Paesi occidentali, fra chi ritiene che l'appartenenza religiosa vada
rivendicata e affermata anche sul piano politico; e chi ritiene invece che
questo approccio condanni la Chiesa e i suoi seguaci a una condizione di
minoranza; al rischio di essere strumentalizzata da chi brandisce i suoi
valori, e di vedere prevalere i suoi avversari ideologici. Insomma, è in atto
un confronto aspro sul modo di declinare la presenza dei cattolici in politica:
un dilemma drammatizzato dalle divisioni profonde, spesso irriconciliabili
fra le sue componenti. Così, nonostante Monti sia apprezzato in Vaticano e
tempo fa abbia incontrato anche il capo dei vescovi italiani, cardinale Angelo
Bagnasco, eventuali punti di contatto non riguardano le strategie e le alleanze
politiche ma il ruolo del governo: sul piano interno e internazionale. Fra l'altro,
il presidente del Consiglio ha sempre tenuto a separare il suo ruolo
istituzionale dalle sue convinzioni religiose: pur essendo notoriamente un
cattolico convinto. Fra i promotori del movimento nato sabato scorso, la parola
d'ordine di fatto è un trasversalismo che può suonare
ambiguo ma è anche considerato un elemento di novità; e un modo per aiutare
Monti. D'altronde, il progetto è quello di creare un'area moderata che appoggi
Palazzo Chigi e spinga per la conferma del premier. Ma la spinta iniziale è
stata quella di combattere il fenomeno dell'astensionismo, arrivato a
percentuali inquietanti; e di contrastare la tentazione di una sorta di «grillismo bianco» antigovernativo e antipolitico da parte
di spezzoni del mondo cattolico. Si tratta di un processo appena agli inizi.
Tende a fare emergere le contraddizioni di un mondo sospeso per anni, anche suo
malgrado, nell'orbita berlusconiana. Inutile forzare le tappe: occorrerà tempo
per trovare un baricentro e interlocutori diversi.
Il manifesto del nuovo centro e i distinguo del mondo cattolico di Paolo Conti
- La convention di «Verso la Terza Repubblica»
ha aperto un immediato confronto tra le diverse realtà cattoliche che guardano
con forte interesse all'iniziativa. Sul palco, con Luca Cordero di Montezemolo,
c'erano per esempio Andrea Riccardi, ministro del
governo Monti ma soprattutto fondatore della Comunità di Sant'Egidio, e Andrea Olivero, presidente delle Acli. E sono già cominciati i distinguo.
Primo tra tutti, e forse il più significativo, quello di Carlo Costalli, presidente del Movimento cristiano dei
lavoratori, ovvero Mcl. Dopo le dimissioni di Natale
Forlani è anche il portavoce pro tempore di Todi 2, il nuovo Forum delle
associazioni cattoliche italiane. La posta in gioco: i «valori non negoziabili»
(la difesa della vita, della famiglia fondata sul matrimonio, solo per fare un
sintetico esempio) e le questioni sociali che spingono i cattolici a un
rinnovato impegno politico. Dice Costalli: «Una delle
motivazioni che ci spingono a mantenere una posizione di attesa è proprio
l'assenza, nelle dichiarazioni iniziali e nei discorsi, di quei valori non
negoziabili che per noi sono essenziali. Così come non ho trovato alcun accenno
all'economia sociale di mercato». Non è proprio una bocciatura ma un distinguo
sì. Costalli ricorda un dato per lui essenziale:
«Todi 2 si è ricompattata su un documento molto chiaro in cui quei valori sono
chiaramente presenti. Dunque dovremo riunirci, parlare, riflettere. Vogliamo
arrivare unitariamente a una decisione e sarebbe sbagliata qualsiasi fuga in
avanti. E altrettanto sbaglierebbe se qualcuno se l'aspettasse». A cosa si
riferisce, presidente Costalli? «Sappiamo bene che
quei valori creano non pochi problemi nell'area laica. Ma noi non possiamo né
vogliamo rinunciarci, come qualcuno in realtà vorrebbe». I «si dice» si
susseguono. Si parla di una preoccupazione della Conferenza episcopale
italiana. Non solo per il testo iniziale della convocazione ma anche per la
sorte dei Movimenti cattolici: un conto sarebbe un lavoro per dar vita a un
vasto raggruppamento capace di attirare consistenti consensi elettorali,
giustificando l'impegno di associazioni forti di migliaia di aderenti. Altro
sarebbe un allargamento di Italia Futura. Non è un caso forse che, pur
sollecitati, altri interlocutori come Sergio Marini (Coldiretti) e Luigi Marino
(Confcooperative) preferiscano non intervenire nel dibattito. Andrea Olivero però ribatte: «Io, dal palco della convention, ho ricordato
con chiarezza i nodi che ci premono. Cito letteralmente: "Voglio qui
portare i valori che mi sono e ci sono più cari come cattolici. La tutela e la
promozione della vita, a partire da quella più fragile e indifesa. La famiglia
fondata sul matrimonio e aperta alla generatività, la
libertà di educazione...". Naturalmente le ho presentate come proposte
laicamente fondate, altrimenti sarei un integrista».
Ma quale evoluzione si può immaginare? «Ricordo che il documento di
convocazione non può essere inteso come programma fondante di un soggetto che è
ancora tutto da definire. Nelle prossime settimane, quando si deciderà il tipo
di impegno, si uscirà sicuramente dalla genericità approdando a una sintesi».
Molto più neutra, infine, l'analisi di Gianfranco Brunelli, direttore del
quindicinale «Il Regno» del Centro editoriale dei padri dehoniani:
«Non mi risulta che il movimento patrocinato da Montezemolo possa essere
definito come "formazione cattolica". Questo dibattito mi sembra mal
impostato. Tocca di fatto al singolo cattolico impegnato in politica difendere
e incarnare certi valori. Perché l'ispirazione cristiana di origine è
immensamente più grande di qualsiasi luogo concreto in cui si possa esercitare
una responsabilità politica...».
lunedì 19 novembre 2012
La vicenda Scalera ..uno scandalo
Alla cortese attenzione
del Sindaco Massimo Cacciari;
dell’assessore al Patrimonio e ai
Lavori Pubblici Mara Rumiz
Oggetto: Edilizia
Convenzionata Pubblica nell’area Scalera
L’Associazione 40xVenezia, tra i cui
scopi rientra la difesa e la rinascita del tessuto socio-economico
della città storica, chiede al Comune di Venezia lo stato di
sviluppo del progetto di Edilizia Convenzionata Pubblica dell’area
Scalera, rientrante nel più ampio accordo con Aqua Marcia relativo
al recupero del Molino Stucky.
Facendo seguito al nostro Documento
Casa 1.0 - presentato nel maggio 2008, che vi alleghiamo – e agli
articoli non esaustivi usciti sugli organi di stampa, sottolineiamo
la necessità di mantenere alta l’attenzione sulla realizzazione e
soprattutto sulla assegnazione delle case pubbliche della Scalera.
A tal proposito chiediamo
all’amministrazione comunale nelle persone del sindaco Massimo
Cacciari e dell’assessore del Patrimonio e dei Lavori Pubblici Mara
Rumiz:
- quale sia la quantità esatta, tra gli alloggi in corso di realizzazione, di quelli destinati alla vendita a prezzo convenzionato e quale il numero da assegnare in locazione alle fasce protette;
- quale sia il taglio dei predetti alloggi;
- quali siano i criteri previsti dal bando per l’assegnazione;
- quali siano le modalità previste per favorire lo scorrimento della graduatoria in modo da scongiurare il rischio che alloggi destinati ad uno scopo di difesa del tessuto sociale finiscano sul libero mercato;
- quali garanzie il Comune abbia attivato affinché le clausole previste dalla convenzione con Aqua Marcia abbiamo sufficiente copertura;
- quali considerazioni siano state fatte in merito all’andamento del mercato immobiliare stante i recenti avvenimenti e quindi quali riflessioni questi eventi abbiano nella determinazione del nuovo prezzo convenzionato.
La presente missiva ha lo scopo di
stimolare una efficace azione amministrativa sulle delicate questioni
legate alla residenzialità sul territorio comunale, soprattutto
riguardo la drammatica situazione della città storica. In attesa di
un pronto riscontro a questa lettera ribadiamo la volontà di
conoscere nel dettaglio le attività che codesta amministrazione
comunale ha in essere, oltreché sull’area Scalera, per le aree di
San Giobbe, Italgas (Gasometri S.Marta), San Pietro di Castello,
Sant’Elena ex cantiere ACTV, e le politiche di recupero degli
alloggi attualmente sfitti all’interno della città storica.
Stante l’estrema urgenza e
delicatezza della questione residenzialità, siamo certi di un Vostro
tempestivo chiarimento sulle politiche in corso, in mancanza del
quale riterremo necessario coinvolgere l’opinione pubblica sul
dramma sociale che questa città sta vivendo.
domenica 18 novembre 2012
sabato 17 novembre 2012
Il risveglio del doge
Io c'ero e ho parlato di donne a Venezia. donne che in questa città vivono gli inconciliabili tempi del turismo e non hanno i nidi , che non riescono ad entrare nei cda delle partecipate del comune , denno che i partiti candidano come specchietto . Pestiamo i piedi veneziane!!!!
Questo momento deve far capire alla nostra amministrazione che ci siamo e gli stiamo col fiato sul collo!
Questo momento deve far capire alla nostra amministrazione che ci siamo e gli stiamo col fiato sul collo!
mercoledì 14 novembre 2012
domenica 11 novembre 2012
Protocollo acqua alta 40xvenezia
PROPOSTA PER UN PROTOCOLLO DI PROCEDURE
COMUNI
PER UN PIANO DI EMERGENZA MAREE
PREMESSA
Da un’indagine svolta all’interno
del movimento dei 40xVenezia e tra diversi cittadini ed operatori
commerciali del territorio comunale,
sono emerse come avvertite le seguenti necessità:
-condivisione di parametri chiari che
definiscano i vari livelli d’emergenza prevista o raggiunta a
cui corrispondano precise sequenze di
azioni istituzionali coordinate;
-elaborazione di un piano di “Emergenza
Maree” (in caso di Acqua Alta o Acqua Bassa)
supportato da un’adeguata, capillare
e tempestiva informazione alla popolazione;
-stesura di un protocollo condiviso che
faccia scattare una serie di provvedimenti cautelativi, quali:
a) Interruzione “automatica” di
qualsiasi azione sindacale sull’intero territorio comunale
b) Sospensione della raccolta rifiuti e
conseguentemente il divieto di lasciare in calle i suddetti da
parte dei cittadini
c) Sospensione delle attività
didattiche o alternative alle stesse
d) Istituzione di centri di pronto
intervento civile dove le organizzazioni riconosciute di volontariato
possano prestare la propria opera
e) Formazione e informazione cittadina
e scolastica del protocollo di emergenza cittadina
f) Coinvolgimento di concessionari di
trasporto privato di persone che prestino servizio gratuito di
quanti necessitano di spostamenti
urgenti per responsabilità nel piano di emergenza
Fermo restando l'indiscutibile e
prezioso impegno profuso da Protezione Civile e volontari, come
40xVenezia abbiamo ipotizzato la
possibilità di avviare un tavolo di lavoro cittadino -aperto anche
ad associazioni e altre rappresentanze
della società civile veneziana -che elabori un'efficace
integrazione e completamento delle
procedure già in essere da parte delle istituzioni preposte
(Comune, Prefettura, Protezione
Civile...) nonché del Piano Provinciale di Emergenza, elaborato
come da D.L.vo 112/98, al fine di
creare maggiore efficacia e complementarietà tra istituzioni e
cittadini in un’azione comune e
corale volta all'affrontare i disagi e i pericoli che situazioni di
emergenza legata alle maree comportano
alla popolazione residente e agli ospiti della città.
Siamo infatti fortemente convinti che
un ampliamento e un consolidamento di protocolli di
emergenza sia indispensabile,
inserendovi eventualmente anche istituzioni ed enti che hanno larga
presenza di sedi ed attività in centro
storico.
Inoltre auspichiamo in tal modo di
favorire un miglior coordinamento tra centro maree, istituzioni,
enti vari, imprese e cittadini,
avvertito dalla città, come si può evincere dalle tante proteste
emerse
nei primi giorni di dicembre.
Quale primo strumento di cui dotare
tale tavolo, abbiamo quindi elaborato la seguente proposta di
protocollo di procedure comuni per un
piano di emergenza “maree”, dove specificare in termini di
competenze e reperibilità, i ruoli che
ogni istituzione deve avere nel caso si verifichi l'emergenza.
Poiché qualsiasi piano di protezione
civile prevede dei protocolli fra i vari attori che entrano in
gioco in caso di emergenza, detto
protocollo deve prevedere un piano di emergenza da aggiornarsi
ogni 6 mesi
LA PROPOSTA
1. Del principio di “Emergenza”
E’ indispensabile arrivare alla
definizione chiara e inequivocabile dei parametri che individuano i
vari livelli d’emergenza ai quali
corrispondano precise sequenze d’azioni istituzionali coordinate
2. Del potenziamento del Centro Maree
Poiché nell’attuale stato di
vulnerabilità la previsione degli eventi eccezionali di acqua alta è
alla
base di tutte la catena informativa che
permette alla cittadinanza di difendersi per tempo, si ritiene
che la preziosa e indispensabile opera
svolta dagli addetti del Centro Maree non solo debba essere
maggiormente conosciuta, ma anche
maggiormente valorizzata, ad esempio attraverso azioni di
potenziamento del centro, della sua
rete telemareografica e correntometrica e della modellistica
impiegata, da concordare con il centro
stesso.
3.Dell’informazione al pubblico
Si ritiene debba essere implementato il
servizio di informazione in tempo reale della situazione
maree, segnatamente attraverso:
a) Maggiore promozione del sistema di
allerta capillare del rischio acqua alta via sms e sviluppo
dello stesso (anche mediante eventuali
accordi con i gestori telefonici volti a contenere i costi);
b) attivazione di specifica
messaggistica sui display posizionati presso le fermate degli autobus
(o
all’interno degli autobus) ACTV e/o
ATVO diretti a Venezia che avvertano del livello dell'acqua,
così che chi arriva dalla terraferma
possa regolarsi di conseguenza.
c) attivazione di specifica
messaggistica sui display posizionati presso le uscite degli
aeroporti
dedicati a Venezia (Tessera e Treviso)
d) Avvisi audio nelle principali
Stazioni ferroviarie del Dipartimento Regionale Veneto e
e) Sistema di rilevamento e successiva
informazione sul web del centro maree con aggiornamenti in
tempo reale, grazie alle segnalazioni
di soggetti aderenti al presente protocollo e presenti nei diversi
punti della laguna.
f) Miglioramento della distribuzione di
materiale a stampa (guida con mappa) multi-lingue per
informare anche le presenze straniere
sulla tipologia del fenomeno “acqua alta” e le sue
caratteristiche, su eventuali procedure
da seguire nonché sui presidi medici, ospedalieri e di pronto
soccorso presenti in città
g) Divulgazione di eventuali messaggi
“a voce” almeno anche in inglese, per informare gli stranieri
presenti in città sullo stato della
situazione.
4. Delle procedure da attivarsi durante
l’alta marea
Premesso che allo stato attuale non ci
è stato ancora possibile visionare tutti i documenti relativi alle
eventuali procedure già esistenti in
caso di acqua alta della Prefettura, del Comune di Venezia,
dell’Actv, di Vesta, ecc., qualora
tali documenti non lo prevedessero già, si propone di includere nel
Piano Emergenza:
a) obbligo di diminuzione dei limiti di
velocità dei natanti con una altezza di marea superiore ai 90
cm. ed un divieto di navigazione a
motore sopra il metro e 10 (tranne per i servizi pubblici e quelli
ritenuti indispensabili).
b) divieto di mettere fuori le
immondizie dopo il suono delle sirene e, se già esposte, l'obbligo
di
ritirarle.
c) espressa richiesta agli utenti
privati affinché nei due giorni successivi al fenomeno dell’alta
marea seguano scrupolosamente le due
tipologie di "differenziata" (carta, vetro e lattine) per
facilitare così lo smaltimento del
sovrappiù di immondizie per lo più legate ad attività commerciali
d) utilizzo di passerelle non
galleggianti con un sistema rapido di fissaggio ai cavalletti.
5. Del rilevamento di danni
Una volta individuati i diversi livelli
d’emergenza, si favoriscano le seguenti azioni:
a) prelievo di campioni d’acqua in
punti importanti e strategici della Laguna e dei canali interni
veneziani, al fine di analizzarne la
composizione chimica e batteriologica (rischio inquinamento)
b) ai ritiri dei giorni successivi ad
un fenomeno di acqua particolarmente alta, Veritas comunichi i
dati (tonnellate o metri cubi) di
immondizie raccolte in più rispetto al quantitativo medio
6. Obiettivi e conclusioni
La presente proposta di protocollo –
ampliabile – è volta al miglioramento dell’attuale sistema di
procedure da adottarsi fino all’entrata
in funzione del sistema di salvaguardia MOSE, chiamato a
garantire il superamento delle
problematiche sollevate e delle lacune evidenziate dall’attuale
sistema di gestione dell’emergenza
acqua alta.
Si ritiene necessaria una verifica con
i diversi soggetti interessati dai contenuti del presente
documento, perciò è nostra intenzione
stimolare l’avvio di un ciclo di incontri operativi in cui i
diversi enti e istituzioni possano
operare un’analisi tecnica approfondita dello stato d’essere e
confrontarsi sulla fattibilità delle
nostre proposte.
Anna Brondino
40xVenezia
giovedì 8 novembre 2012
Bucheremo la sfera di cristallo a Venezia?
Al presidente del
consiglio Comunale
Roberto Turetta
Egr Presidente
Abbiamo saputo che il
consiglio comunale si appresta a discutere delle prossime nomine per
il collegio dei revisori dei conti del nostro comune di Venezia
E' per questo che mi preme
farle presente che proprio per dare seguito alla nostra campagna per
la sensibilizzaziome delle donne alla presentazione dei curricula per
i ruoli dirigenziali negli organismi di controllo e nelle partecipate
di questo comune , vorremmo che nella discussione venissero tenute
presente le competenze delle donne che hanno presentato il loro
curriculum.
Dare spazio alle donne
competenti e capaci , non significa togliere posti agli uomini, ma
fare un grande salto di qualità culturale e innovativa.
Tutti i cittadini e le
cittadine che vogliono mettere al servizio della comunità del
nostro territorio il loro tempo e le loro capacità per migliorarne
la qualità di vita econimica e culturale, debbono avere pari
opportunità di accesso ai ruoli apicali e di controllo.
Questo non può che essere
migliorativo e motivante per una gestione della cosa pubblica che
intenda avere come scopo ultimo il benessere fisico , economico e
culturale di tutti i cittadini.
Siamo sicure che lei si
adopererà perchè solo i criteri della competenza e della qualità
diventino illuminanti nella scelta delle persone che il consiglio
comunale si appresta a designare
Anna Brondino
martedì 6 novembre 2012
Arsenale ai veneziani?
Io non credo sia proproio così
Stiamo parlando di 3 milioni di euro che il comune non può più spendere come vuole .
Caro Orsoni dicci che ci vuoi fare con gli spazi che chiedi e non strumentalizzare i movimente e le associazioni per il tuo bilancio
Che mi dici se Arsenale spa vendesse un po' di sue quote ai privati che magari fanno un bel albergo a 5 stelle con campo da golf e darsena?
Perchè tu sindaco e quindi istituzione pubblica delegittimi l'avvocatura di stato , perchè non ti piace ciò che dice?
Attendo risposta
Stiamo parlando di 3 milioni di euro che il comune non può più spendere come vuole .
Caro Orsoni dicci che ci vuoi fare con gli spazi che chiedi e non strumentalizzare i movimente e le associazioni per il tuo bilancio
Che mi dici se Arsenale spa vendesse un po' di sue quote ai privati che magari fanno un bel albergo a 5 stelle con campo da golf e darsena?
Perchè tu sindaco e quindi istituzione pubblica delegittimi l'avvocatura di stato , perchè non ti piace ciò che dice?
Attendo risposta
Il metodo dell’ostracismo di Francesco Merlo
Come sempre chi ha idee confuse ha paura delle idee.
E dunque Grillo e i suoi pasdaran, per paura delle idee di Federica Salsi, hanno
deciso di punirla e l'hanno isolata anche fisicamente, come fanno i talebani
con le donne che hanno rotto il patto d'onore. Mancava solo che le tirassero le
pietre. E infatti, quando nel consiglio comunale di Bologna lo spettacolo è
diventato grottesco, la Salsi si è sentita - ha detto - "lapidata in
pubblico". E le pareva - ha aggiunto - di essere "dentro Scientology" perché questo cieco fanatismo grillino
sarà pure comicità che si fa tragedia, ma chissà quanti vaffanculo
stanno diventando concreti e duri sulla pelle di una donna viva e sensibile. E
infatti le è sembrato di subire - ha scandito - "una violenza" quando
il suo compagno e collega Massimo Bugani si è alzato
e l'ha lasciata sola pronunziando frasi sconnesse ma tonitruanti
come questa: "Io credo che per me parli la mia storia" (la geografia
è afasica?). Come si vede, il linguaggio è ridicolo ma anche allarmante.
Ascoltiamo ancora questo goffo Carneade che, confortato da Momsen
e da Polibio, si appella "alla mia vita e al mio
impegno su questi temi all'interno del consiglio comunale". Ecco:
"Questi temi" erano la partecipazione a Ballarò
della lapidanda e disonorata Federica e non i rumori
di guerra atomica tra Iran e Israele. E però dietro la nostra facile risata c'è
la preoccupazione per il vuoto delirio che la Storia ci ha fatto ben conoscere
nella sua versione grandiosa e che adesso Grillo ci ripropone in chiave buffa e
mostruosa ma pur sempre violenta, tragicomica appunto. Pensate che Bugani si è fatto fotografare mentre fa il gesto di vittoria
come Churchill con alle spalle l'emblema del Movimento 5 stelle e addosso una
t-shirt con su scritto: "Io siamo Massimo Bugani".
Certo, questo invasamento somiglia più a quello di Sandro Bondi per Berlusconi
che alla mistica dei comunisti per Stalin, ma la banalità dello squilibrio è la
stessa. Grillo - ha raccontato ieri il quotidiano Pubblico - ha compilato una
lista di cronisti da evitare, di giornali a cui non concedere interviste, di
programmi televisivi da boicottare. Macchiettisco
dunque. E tuttavia violento. E non verso i giornali (chi se ne importa) ma
verso i militanti che se disobbediscono e vanno a Ballarò
vengono appunto lapidati come Federica Salsi. E sono i tipici sintomi di quelle
febbri da teste calde. Pensate che il nostro Carneade produce video inchieste
per il movimento, il gruppo virtuale dei grillini,
firmate con il soprannome di un pirata, "Nick il nero", proprio come
un tempo i ragazzi di Farinacci adottavano nomignoli salgariani:
"La disperata" era la squadra, e il capomanipolo
era "Yanez". Di sicuro Federica Salsi non è
Rosa Luxemburg ma una di quelle donne che è bello
incontrare e frequentare solo per scambiare battute sull'attualità o sulla moda
o sui figli. E difatti pensava di poter dire la sua su quel piccolo mondo che è
la politica italiana senza chiedere il permesso a Grillo o a Casaleggio o ai consiglieri comunali di Bologna - l'altro scientologo si chiama Marco Piazza - che l'hanno
maltrattata. E ascoltate ancora come diventava accorato Bugani,
un po' Atlante e un po' Giobbe, con il peso e le ferite del mondo addosso:
"Ci sono momenti davvero dolorosissimi nella vita (e i fazzoletti
grondavano pianto, ndr) in cui si deve osservare il mondo da un diverso punto
di vista pagandone anche le conseguenze. Questo per è me uno di quei
momenti". Stephen Zweig, che li chiamò Momenti
Fatali, ne aveva contati 14: quattordici vite che riassumono il mondo. Bugani è il quindicesimo Momento Fatale. E forse il
sedicesimo è Antonio Di Pietro mentre caccia Massimo Donadi,
un altro reietto, reo di dissenso. Di Pietro, che nella sua lunga storia non ha
mai nascosto la mano mentre lanciava le pietre, sta finendo in una
filodrammatica dove ci sono tutte le parti in commedia, buffonesche e tragiche.
E ora i suoi intellettuali organici fanno esercizi di filologia catastale, come
neppure Bocchino ai tempi di Tulliani, precisando che le case sono 11 e non 56.
E la loro contabilità al dettaglio distingue appartamenti e particelle,
donazioni e "elargizioni modali", affitti e speculazioni, senza
pensare che - come diceva Totò - "non è la somma che fa il totale",
perché è il dettaglio che offende, è il dettaglio che si fa trave nell'occhio
del moralista, nel cuore della confraternita. Comunque Di Pietro, che campa di
televisione, non potrà mai entrare nella Scientology
di Grillo. Ce lo spiega di nuovo il devotissimo Carneade Bugani,
citando Pasolini: "Non c'è niente di più feroce della banalissima
televisione". Così il grillismo da mediocrità
dispettosa sta mutandosi in populismo velenoso. L'originaria comicità è
diventata ferocia contro il dissenso. Scriveva Rimbaud: "... avverto la
ferocia del sorriso idiota".
martedì 30 ottobre 2012
martedì 23 ottobre 2012
lunedì 22 ottobre 2012
domenica 21 ottobre 2012
sabato 20 ottobre 2012
lettera interessante su Venezia
Ho
appreso, con comprensibile stupore, che il geom. Bertoncello è stato
riammesso all’esercizio della libera professione dal Consiglio dei
Geometri. Il presidente della categoria, da voi intervistato, ha
dichiarato che si tratta di un provvedimento temporaneo in attesa che
il consiglio prenda le opportune misure disciplinari. Non entrando
nel merito e nei tempi di tali procedure, ritengo e credo che il
ruolo dei collegi professionali, difesi con forza e mantenuti in
essere dall’ultimo decreto Monti, debba essere di Disciplina della
Professione a favore della tutela del Cittadino e non certo di
protezione della casta. Come residente nel delicato e prezioso centro
storico di Venezia, leggo ed interpreto la notizia negativamente; i
“furbetti”, cito un termine più volte utilizzato dalla stampa
nella vicenda, non solo sono liberi, ma possono pure continuare,
legalmente, a fare la professione. Che bell’esempio, ma soprattutto
oltre al danno la beffa: sciocchi quei Cittadini Onesti che si
rivolgono a Professionisti che non hanno agganci. Ma, caro Direttore,
il Comune, l’Assessore all’Edilizia, i Funzionari, che subito
dopo lo scandalo hanno manifestato con forza e vigore sdegno per
l’accaduto, annunciando una rapida e strutturale riforma
dell’impianto degli uffici SUER e SUAP ad oggi cos’hanno fatto?
Le categorie professionali del comparto edilizia, le associazioni, i
Collegi non si costituiscono parte civile a favore di un’onesta
declinazione della professione e contro la possibilità di
un’illecita concorrenza che danneggia la Committenza e svende pezzi
di città ? Gli immobili, realizzati con procedure ritenute
truffaldine dalla Magistratura, non vengono ritenuti degni
d’interventi relativi all’annullamento della liceità edilizia
impedendone così l’uso ? Ho atteso qualche giorno, ma alla
notizia è seguito il silenzio. Non si lamentino più i Cittadini
Veneziani se una loro pratica necessita di due anni per avere
risposta, magari negativa o d’integrazione atti. A questo punto
siamo tutti colpevoli, a cominciare da chi ha il potere ed il dovere
di fare, ma non ne ha il coraggio.
Lettera firmata
giovedì 18 ottobre 2012
Traghetto a San Samuele?
Leggo l'articolo sul traghetto di San
Samuele e rimango veramente sconcertata !.
E' proprio vero che chi più grida in
questa città, più viene ascoltato
Hanno ragione i genitori che portano i
bambini alla scuola Renier Michiel , che non possono usufruire del
traghetto , ma hanno anche ragione i gondolieri che dicono che lo
stazio non è a norma e non si prendono la responsabilità di aprire
il servizio ( si tratta di bambini) .
Ma i controllori dove sono? I vigili
che dovrebbero controllare e riferire all'assessore di riferimento ,
non hanno visto che il traghetto non funzionava? Ma l'assessore non
ha il controllo costante delle situazioni che riguardano la mobilità
in città?
Sarà presissimo dal tram , che ci sarà
fornito da una ditta che come avevo previsto è fallita... ma i
miseri traghetti?
L'ultimo servizio per i veneziani che
hanno ormai i vaporetti intasati e ai quali resta solo il
teletrasporto per muoversi in città , quelli li vogliamo
controllare o no?
Resto in attesa di una risposta , sono
fiduciosa anche se ho conosciuto uno che è morto aspettando
Matteo Renzi ? ah ah ah !
Dopo
un pomeriggio al Palaplip di Mestre torno a casa con le idee un po'
confuse... Anzi no ! Chiarissime!
Già,
le cose he ha detto Matteo Renzi al Palaplip sono più o meno le
stesse cose che Alessandro Danesin ha detto nell'intervista
rilasciata l'altro ieri al vostro giornale.
Confusione
di ideologie? No non credo , cose di normale buon senso:
Il
giovane Renzi , bravissimo comunicatore, look perfetto, staff
eccezionale , soldi molti da investire nella sua campagna elettorale
per le primarie circondato come una vera star da fotografi e
telecamere , non dice cose nuove, parla di speranza per il futuro,
parla di donne, di asili nido, di anziani da rispettare, cose tutte
condivisibilissime , ma non ho sentito una sola parola sul come .
Video
di Crozza, quindi autoironico, video di Obama finale, un po' retorico
, il ragazzo ha studiato molto le tecniche di comunicazione strappa
continuamente applausi , è un vero incantatore ,un grande
attraversatore di tematiche , ma veramente poco concreto , non ha
detto una sillaba sulle risorse per risolvere i problemi di cui tanto
parla.
Allora
perchè tanto scalpore ? Nessuno di noi e talmente smaliziato da
capire? No , siamo talmente stufi di vedere che ogni giorno c'è
qualche politico inquisito che la normalità ci sorprende!
Perchè
la normalità è diventata eccezionale, la nostra classe politica
locale e nazionale , ha smarrito il buon senso!
Gli
asili nido da fare, gli anziani da aiutare, gli investimenti da
attirare per migliorare la qualità di vita di tutti i veneziani , la
trasparenza e l'onestà .non sono né di destra né di sinistra,
Qui
sta la questione , il buon senso e la buona amministrazione che
dovrebbero essere la normalità , sono la novità , una grande
tristezza mi assale !
Che
dire, speriamo nei giovani e nelle donne ?
Potrebbe
essere , partiti muovetevi e fate un' analisi seria della grave
carestia che ha colpito il nostro territorio , mancano soldi ,
mancano idee, manca l'onestà , manca il buon senso!
martedì 2 ottobre 2012
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia in occasione della messa solenne per la festa di S. Michele (Duomo di Mestre, 29 settembre 2012)
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