giovedì 20 dicembre 2012

Brogli, raggiri e residenze fasulle. Ma la legge sul voto all’estero non cambia di Gian Antonio Stella Da Razzi a Di Girolamo, sbarcati a Roma personaggi indimenticabili

Sette anni sono passati, dalle prime denunce di brogli. Sette anni di promesse, impegni, pensosi bla-bla-bla. Eppure gli italiani all'estero torneranno al voto con le stesse regole pazze che hanno permesso raggiri d'ogni tipo. Come quello ripreso in un video dove dei ragazzotti nati e cresciuti in Australia, in cambio di una cassa di birra, riempivano in un garage di Sydney centinaia di schede elettorali per mandare senatori e deputati a Roma. Dice ora Berlusconi che sarebbe bene spostare il voto più in là possibile perché «si può generare caos soprattutto per le elezioni all'estero». Certo è che dopo avere osannato nel 2005 i nostri emigrati come «strumento insostituibile della proiezione dell'Italia nel mondo» e dopo averli attaccati nel 2006 («Non pagano le tasse, è discutibile che possano votare») perché proprio loro gli avevano fatto perdere per un pelo la maggioranza al Senato, il Cavaliere non si è speso molto per cambiare quelle regole. Né, sia chiaro, si sono spesi molto tutti gli altri. Racconta il senatore Claudio Micheloni, da mezzo secolo in Svizzera, che a un certo punto parevano tutti d'accordo sulla necessità di cambiare almeno i punti più scabrosi della legge del 2001 che attuando l'articolo 48 della Costituzione, assegnò alle nostre comunità estere 12 deputati e 6 senatori divisi in 4 immense circoscrizioni planetarie. E i ritocchi, di buon senso, passarono all'unanimità. Poi, però, si sono impantanati. Il grande sogno di Mirko Tremaglia, che per decenni aveva girato il mondo promettendo a veneti e calabresi, pugliesi e romagnoli che avrebbero potuto dire la loro in Parlamento, è stato via via travolto da episodi sconcertanti. Come il peso abnorme sui destini del governo Prodi dell'italo-argentino Luigi Pallaro che si presentò dicendo «chiunque vinca, io starò con l'esecutivo» e per mesi tenne tutti col fiato sospeso: «C'è Pallaro? Il governo regge o va sotto?». O l'ingresso a Palazzo Madama di uomini come il ricco Juan Esteban Caselli, detto «El obispo», il vescovo, assai discusso per i suoi rapporti coi militari ai tempi della dittatura di Videla e coinvolto dal ministro dell'Economia Domingo Cavallo nelle accuse di traffico di armi e altre faccende finite al centro del giornalismo d'inchiesta di Buenos Aires. O ancora lo sbarco a Montecitorio di uomini come Antonio Razzi, improvvidamente candidato da Antonio Di Pietro e protagonista, con Domenico Scilipoti, di quello che è stato il salto della quaglia più spettacolare della legislatura che va a chiudersi. Sancito dal voto di fiducia al Cavaliere nella drammatica giornata del 14 dicembre 2010 e spiegato nella confessione registrata di nascosto dal collega Francesco Barbato: «Se si votava il 28 marzo com'era in programma, io per 10 giorni non pigliavo la pensione. Hai capito? Io ho detto: ché, se c'ho 63 anni, giustamente, dove vado a lavorare io? In Italia non ho mai lavorato. Che lavoro vado a fare? Mi spiego? Io penso anche per i cazzi miei. Io ho pensato anche ai cazzi miei. Non me ne frega. Perché Di Pietro pensa anche ai cazzi suoi... Mica pensa a me. Perciò fatti un po' i cazzi tua e non rompere più i coglioni. E andiamo avanti. Così anche tu ti manca un anno e poi entra il vitalizio». E come dimenticare Nicola Di Girolamo? Entrò al Senato con 25 mila voti. Poi saltò fuori, come avrebbe accertato la magistratura, che non viveva neppure all'estero: «Ha dichiarato falsamente di essere residente in Belgio, nel Comune di Etterbeek, Avenue de Tervueren n. 143. Tale affermazione si è subito rivelata falsa in quanto, tra l'altro, nel territorio del Comune di Etterbeek non esiste alcuna Avenue de Tervueren n. 143. Il Di Girolamo risultava assolutamente sconosciuto all'anagrafe belga». Non bastasse, emersero rapporti d'affari con la 'ndrangheta (seguiti da una richiesta d'arresto, dalle dimissioni e dal carcere) e l'intercettazione di una telefonata in cui l'ambiguo «imprenditore» Gennaro Mokbel gli diceva: «Se t'è venuta la candidite Nicò e se t'è venuta già a' senatorite è un problema tuo, però sta attento che ultimamente te ne sei uscito tre volte che io sono stato zitto ma oggi mo' m'hai riempito proprio le palle Nicò. Capito?». Quanto il sistema fosse a rischio, del resto, fu confermato come dicevamo dal candidato trombato Paolo Rajo, autore del video citato e girato nel garage col telefonino. Rajo raccontò a Repubblica.it che quel rito elettorale era così distante nella testa degli italiani «australianizzati», che l'amico siciliano organizzatore del broglio sembrava inconsapevole della gravità: «Mi ha detto candidamente "Ma Paolo, noi ti stiamo già aiutando, in garage c'è me figghiu cu atri boy frend che ti stanno a riempire le tue ballot paiper» cioè le schede. Un episodio fra tanti, simile a quello denunciato in Venezuela da Antonella Buono che presentò intercettazioni di questo tenore: «Senta, le volevo dire che sono arrivate le tessere elettorali e noi in famiglia siamo dieci e sa, mi hanno detto di mandarle tutto per posta e che poi voi v'incaricate di riempirle...». Conferma la denuncia, del resto, un dossier del Sindacato Nazionale Dipendenti Ministero Affari Esteri. Che dopo avere spiegato di non volere «mettere in dubbio il diritto dei cittadini italiani residenti all'estero di esprimere il proprio voto», accusa: «Dal punto di vista della sicurezza del voto, è opportuno segnalare che i casi in cui le schede elettorali sono state utilizzate impropriamente da candidati senza scrupoli abbondano. Con il sistema attualmente in vigore, infatti, risulta fin troppo facile fare incetta di plichi elettorali con o senza la complicità di elettori non interessati ad esercitare il proprio diritto». Così com'è, il sistema spalanca «un vero e proprio mercato all'ingrosso delle schede elettorali». Molto meglio, piuttosto, «l'adozione del voto remoto, con procedure totalmente informatizzate, sul modello adottato in Francia per le elezioni politiche 2012». Obiezioni circa la sicurezza? «Facilmente superabili dalla considerazione che esso sarebbe infinitamente più sicuro di quello attuale...». Eppure, salvo miracoli, 18 parlamentari saranno eletti ancora con quel sistema. E magari saranno pure determinanti...

Altri numeri per l’acqua alta di Davide Scalzotto

«A Venezia 120 centimetri di acqua alta». La notizia diffusa dai tg nazionali di norma viene data al termine del rullo sul maltempo, quasi come una nota di colore. Di solito si accompagna alle immagini di turisti che si divertono a sguazzare in piazza San Marco. Eppure quella frase, buttata là quasi per abitudine di per è drammatica, se non apocalittica. Pensate se la stessa notizia venisse riferita a Roma, Londra, New York: «città sommersa da 120 centimetri di acqua». Si scatenerebbero i catastrofisti di mezzo mondo. E infatti, malgrado l’acqua alta di Venezia sia considerata un fenomeno caratteristico (come le aurore boreali al polo nord o le onde giganti delle Hawaii), chi non è veneziano e sente certe misure si chiede come facciano i veneziani ogni volta a riemergere da un simile flagello. Chi conosce la città e la marea invece lo sa: 120 centimetri significa che San Marco va sotto di 35-40 centimetri, ma anche che gran parte del centro storico (l’80% circa) è percorribile. E che anche laddove c’è l’acqua, ci sono le passerelle. Inutile colpevolizzare i tg e i mass media non veneziani. Ricevono e comunicano esattamente ciò che viene loro dato. Non possono stare lì ogni volta a spiegare che i 120 centimetri corrispondono al livello del medio mare misurato alla Punta della Salute. Quella è roba da Superquark, mica da tg. Il problema piuttosto è a monte. Per quanto scientificamente inappuntabili, le comunicazioni del Centro maree vanno bene per i veneziani, ma non per il resto del mondo. E visto che l’acqua alta interessa anche il resto del mondo, specialmente quei turisti che devono decidere se venire o meno a Venezia, la spiegazione scientifica non basta. Nell’epoca della comunicazione rapida, c’è qualcosa che va cambiato. L’attuale sistema di comunicazione non è un dogma: dove sta scritto che non si possa, ad esempio, comunicare in maniera semplice che il tal giorno, anziché i 120 centimetri di marea, ci saranno 35 centimetri di acqua alta a San Marco? Perché non prendere la piazza - il punto più basso della città - e tarare su quella le misurazioni? Di più: si potrebbe anche aggiungere che ci saranno 35 centimetri in piazza San Marco, 5 (per dire) a Rialto, 25 a San Trovaso, 4 in Strada Nuova... Insomma, dare alcuni punti di riferimento della città. In ogni caso, che si adotti l’attuale sistema o che si cambi, gli scherzi del meteo non saranno comunque prevedibili e uno scarto di errore ci sarà sempre. Però almeno si dice alla gente che scenario offre Venezia. Così come non sarebbe male spiegare in poche parole che la marea 6 ore cala e 6 ore cresce. Che se viene annunciata acqua alta per il tal giorno, la città non resta in ammollo per 24 ore, ma dopo due ore il livello dell’acqua si abbassa. Forse sarebbe un modo per rendere meno apocalittica la visione della città che hanno i "foresti", per aiutare chi di turismo vive e lavora e per non creare allarmi ingiustificati in chi deve venire a Venezia o in chi c’è già e si barrica in hotel con pinne e boccaglio in attesa della "grande onda", alzando gli occhi al cielo temendo un bombardamento, ogni volta che suona la sirena. Una proposta: perché non studiare e provare a sperimentare già nei prossimi mesi una comunicazione nuova del fenomeno acqua alta? Meno scientifica forse, ma sicuramente più efficace e comprensibile. Sempre che, ovviamente, i Maya non arrivino prima.

lunedì 17 dicembre 2012

Martini, un sogno ad occhi aperti di Claudio Magris Solitudine e senso di appartenenza. Così la diocesi diventa polis (di tutti)

Gregorio Magno diceva che non avrebbe capito le cose essenziali della vita senza i suoi fratelli, senza altre persone le quali, anche senza rendersene conto, gli avevano fatto intravvedere aspetti e valori dell'esistenza che altrimenti forse gli sarebbero sfuggiti. Il «discernimento», scrive Martini richiamandosi alle parole di Giovanni Paolo II al convegno di Palermo, è certo anzitutto personale ma anche comunitario, risultato di un dialogo che non appanna le differenze individuali, ma le arricchisce in un'integrazione reciproca. Nelle pagine di questo libro, come in tutta l'opera e la vita di Carlo Maria Martini, emerge, fra i tanti problemi radicali che esse affrontano, il nesso drammatico ma saldo fra la solitudine dell'individuo così spesso angosciato dinanzi alla morte e alla sofferenza e il senso della sua appartenenza, pur spesso offuscata e travagliata, a una comunità - dalla cerchia dei legami personali alla sfera del lavoro, dalla città al Paese, all'umanità e, per Martini, a quella Chiesa universale che, prima di essere un'istituzione religiosa, è la coralità del genere umano in Dio, conosciuto o non conosciuto. Probabilmente sono stati anche gli studi biblici, dei quali egli è maestro, ad aver dato a Martini questo sentimento fortissimo dell'uomo, da un lato perduto nell'ansia, nell'ingiustizia e nella sofferenza e dall'altro inserito in un tessuto universale, che gli permette di chiamare qualcuno anche dal profondo della paura. Le pagine di Martini conoscono il «buco nero» dello smarrimento non meno di quanto lo conoscano i profeti del nichilismo, ma non ne fanno un idolo, un assoluto negativo in cui intellettualmente può anche essere comodo rifugiarsi. C'è in queste pagine pure un senso acutissimo della Città, ossia della Civitas, della civiltà, del cammino comune degli uomini, colto nelle sue spesso tragiche contraddizioni e difficoltà eppure mai perso di vista. Quello di Martini, ha scritto padre Sorge, è un «pensare in grande». La diocesi diventa allora una polis, la città di tutti gli uomini e del loro bene comune nella dialettica dei diversi orientamenti, progetti e interessi; un modello di società civile che costruisce «un suo ethos (...) vissuto nella quotidianità» e aperto a comunità più ampie. Non è un caso, ad esempio, che in queste pagine si proclami strenuamente la necessità di un'Europa realmente unita, nella consapevolezza che l'autentica unione non è negazione delle diversità, bensì loro salvaguardia. Così le Chiese locali vengono chiamate a un «cordiale radicamento» nelle diverse culture in cui operano, distinguendosi nettamente da ogni loro organizzazione politica e aiutandole a capire che la propria identità non è mai astiosa e asfissiante chiusura. Evangelizzare la Città, il Paese, l'Europa, il mondo non significa in primo luogo convertire, bensì gettare - come nella parabola del seminatore - nei cuori degli uomini e nel meccanismo delle istituzioni i semi evangelici di questo consapevole valore della vita condivisa. Il credente - che secondo Martini deve sempre ascoltare quel non credente che c'è pure in lui come in ogni uomo - è chiamato ad essere soprattutto «pensante», sottolinea Martini, citando Norberto Bobbio da lui molto amato, ossia a rendersi conto delle difficoltà con cui l'amore cristiano deve confrontarsi, specie in un'epoca di sconcertanti cambiamenti, ora liberatori ora distruttivi. Uomo di confine, l'ha definito Massimo Cacciari. Come ogni vero uomo di confine, Martini sa capire quando i confini vanno oltrepassati e quando vanno difesi, quando bisogna essere un passeur e quando bisogna essere una sentinella. Come i suoi predecessori Ambrogio o Carlo Borromeo, Martini è «defensor civitatis» e in questa difesa dell'umano rivendica il grande ruolo della cultura e specialmente di quella classica, che non è raffinatezza antiquaria, bensì, insieme alla Bibbia, fondamento della nostra civiltà e intelligenza dell'umano, nient'affatto contrapposta ai saperi scientifici che mutano il mondo e la visione del mondo ma capace di guardarli senza paura e senza idolatrie e di dar loro un senso. Questa cultura, basata sulla terribile sapienza greca e sull'insuperata arte di governo dell'antica Roma oltre che sulla Bibbia, non si oppone ad alcun più modesto ma autentico sapere di chi non ha avuto possibilità di dedicarsi a profondi studi, bensì a quella che i tedeschi chiamano «Halbkultur» (letteralmente «mezza cultura», ma sarebbe meglio dire mezza calzetta), presuntuosa e pacchiana, che spesso trionfa nel teatrino pseudointellettuale. I «non pensanti», per citare ancora il passo di Bobbio così caro a Martini, si trovano molto spesso tra chi blatera di cultura. «Defensor civitatis», Martini sa bene che la Città - ossia la società, la realtà - è anche un buio inferno di violenza, di solitudine, di sofferenza senza nome; conosce - sottolinea Ferruccio Parazzoli - le «città terribili» come i grandi scrittori che si sono calati negli inferi contemporanei. Guarda in faccia la negazione anche più dura, come l'ha guardata Cristo nel Getsemani, chiedendo per un attimo di sottrarsi alla sua Passione. Queste pagine sono ricche di temi, problemi, analisi, sfide che investono la nostra vita. La realtà scaraventa addosso al pastore come a tutti gli uomini difficoltà, disincanti, catastrofi e sconfitte; la sua risposta è ogni volta ferma e aperta, un «buon combattimento», per usare l'espressione di San Paolo, pronto a raccogliere la sfida e ad accettare il nuovo, ma irremovibile nella difesa dei valori essenziali e non negoziabili. L'etica non è un sondaggio statistico dei costumi in quel momento prevalenti. L'episcopato di Martini si incrocia con le tempeste di una bruciante stagione storica di trasformazioni e sconvolgimenti, dalla corruzione al terrorismo, dal disagio sociale spesso drammatico al confronto con le ondate di immigrati e con le loro diverse fedi e tradizioni, dalle ripercussioni del crollo del comunismo al terremoto della politica italiana, dal dominio di una sfrenata e autodistruttiva corsa a un profitto irreale a una crisi economica che impoverisce il Paese. «Quest'uomo misterioso che parlava con eccessiva lentezza», ha scritto Ferruccio de Bortoli, sapeva «squarciare il velo della sofferta rassegnazione». Nell'azione e nel pensiero di Martini la fede più solida si unisce a un pragmatismo agguerrito, saldando così l'etica della convinzione a quella della responsabilità. Mirabili, per citare solo qualche esempio, le pagine sul rapporto tra la riaffermazione primaria della famiglia e la tutela di altre forme di convivenza affettiva, o quelle, insieme ferme e aperte, sulla caduta delle elementari evidenze etiche. Le difficoltà, spesso acri per i cristiani, non vengono certo annacquate, ma Martini non vuole cristiani ansiosi o incattiviti. Come l'individuo, pure la Chiesa deve accettare le sfide del tempo, proprio perché il cristianesimo è la fede che si è più calata, calando anche Dio, nella storicità e nella precarietà del tempo. Questo ha portato Martini a criticare a viso aperto, con durezza, molte carenze, cedimenti, infedeltà della Chiesa e a porsi talora in contrasto con la Curia vaticana su alcuni temi essenziali: la libertà di credere e di scegliere secondo il dettame della propria coscienza, il rischio di vivere, il dialogo ecumenico, fondamentale per chi, come lui, si è nutrito per tutta la vita del pensiero e della cultura ebraica, pastore di Milano ma altrettanto cittadino di Gerusalemme. In Martini vive lo spirito del Concilio, appreso pure alla grande scuola innovatrice della Chiesa tedesca, che con Augustin Bea, Joseph Ratzinger e altri, è stata, più di mezzo secolo fa, portatrice delle istanze più avanzate e audaci del Concilio stesso, mettendosi talora in contrasto con la Curia romana d'allora. Il rigore filologico del grande studioso, che non transige su una virgola del testo, diventa rigore morale dinanzi ad ogni violazione; il metodo induttivo della ricerca, che risale alla verità partendo dal basso, è di per sé, ha osservato Marco Garzonio, libera indagine, opposta al metodo deduttivo che fa dogmaticamente discendere dall'alto la verità sul reale. Martini non si è lasciato sconcertare, come forse è accaduto a Ratzinger, da alcune sfasate e insensate derive assemblear-pulsionali che hanno malamente accompagnato lo spirito innovatore di quegli anni, intimorendo talora alcuni suoi stessi protagonisti; senza sgarrare di un millimetro dai capisaldi della fede e della morale cristiana, non ha permesso ad alcun confuso disordine di farlo arretrare dalla sua ferma e pacata apertura. Ha conosciuto, prima e dopo la sua morte, molte livide ostilità da parte dell'ala conservatrice della Chiesa, forse enfatizzate pure dalla vulgata mediatica, anche se egli si è definito «tradizionalista»; infatti l'autentica tradizione, come scriveva anni fa Rodolfo Quadrelli, forte saggista e poeta cattolico avverso ad ogni progressismo di maniera, è la continuità della Chiesa che cresce creativamente fedele a se stessa, senza snaturarsi e irrigidirsi. Nega questa creativa tradizione sia chi vuole bloccare la Chiesa nel passato, come se poi fosse morta e sclerotizzata, sia chi la vuole far cominciare con i fermenti del Concilio, come se prima fosse in catalessi. Martini sapeva che il Concilio le aveva impresso un nuovo grande slancio, una peculiare forza di parlare al mondo. Martini era maestro di laicità, ossia di quella capacità di distinguere fra ciò in cui si può credere e ciò che si può dimostrare; laicità oggi minacciata dal fondamentalismo clericale e da quello laicista egualmente intolleranti. Da questo spirito autenticamente laico, nasce una delle più forti preoccupazioni espresse da Martini, anche in queste pagine: la preoccupazione per la sopravvivenza dell'ethos politico, sempre più cancellato dalla politica-spettacolo, dall'indecenza sfrontata, dall'esibita negazione delle più elementari virtù civili. Oggi è al potere una colloidale classe sociale non più socialmente definibile, se non con quel termine con cui Marx designava il sottoproletariato oppresso e sfruttato al punto di aver perso coscienza di sé, proletariato intellettualmente, moralmente e politicamente «pezzente» (Lumpenproletariat), parola che oggi ben si adatta a definire una gelatinosa classe media generale che non si può classificare né bassa né media né alta, una vaga e indifferente «gente». Anche la collaborazione di Martini al Corriere, negli ultimi anni e in quelli lontani della stagione più difficile del Corriere - quelle «schegge lucenti di cultura e di grazia dei suoi articoli», come li chiamava il direttore di allora, Alberto Cavallari - è stata una prova di questo impegno civile. Evangelizzare la nostra società, nel senso proprio e in quello lato, è un compito così arduo da sembrare perfino a Martini un sogno, anche se, come egli precisa, non certo inteso quale fuga nella fantasia. «Lasciateci sognare», dice il titolo di questo libro, titolo inadeguato al libro stesso, che non è l'invocazione di un'anima bella a essere lasciata in pace nelle sue nobili aspirazioni lontane dalla realtà, ma è un buon combattimento a occhi ben aperti sulla realtà, per cambiarla e non solo per sognare di cambiarla, per impedire che ci si appisoli davanti al male.

Oltre l’indifferenza di Pierangelo Sequeri Questo tempo per vedere i frutti dell’avidità, di cose e di sé

Che dobbiamo fare?», dice la folla. La domanda è rivolta a Giovanni il Battista, e siamo all’inizio di tutto. Giovanni percorre l’intera regione del Giordano, restituendo vita a un’antica parola di Dio: «Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri». La parola viene dal libro di Isaia. La vita ce la mette Giovanni: «Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira imminente? Fate dunque opere di conversione». (E non mi venite a dire che siete figli di Abramo e avete già dato. Incominciate da voi stessi). Quanto alla domanda, che in molti gli rivolgono, la risposta di Giovanni è molto concreta: chi ha il doppio di tutto, può campare benissimo anche con la metà; e chi ha potere sugli altri si accontenti del giusto, senza estorcere niente a nessuno. In altre parole, non siate ingordi di beni, non abusate del potere. Per il resto, Colui che deve venire, aprirà il vostro cuore con Spirito santo e fuoco: e saprete davvero chi siete e che cosa valete. Non è poi così enigmatico e fumoso, questo ammonimento, vero? Volessimo riassumerlo, per la nostra condizione odierna, potremmo dire così. La prima mossa, per sgomberare il terreno al Signore che viene, è questa: mettere risolutamente fuori gioco l’avidità. Deve essere un soprassalto collettivo, una conversione della mente, uno scatto di orgoglio. Domandiamoci tutti insieme: che razza di stile di vita è mai il nostro? Figli di Abramo, figli di Kant, figli di Mazzini o di chi volete voi: ma adesso, che cosa siamo diventati? Non meno di un moto collettivo di pura dignità ci è necessario, ormai. Ci siamo troppo intorpiditi, sottovalutando il pericolo. Fino all’istupidimento. L’avidità è un virus che lavora sottotraccia, ramifica nel sangue e nel cuore: sperpera beni che possono benissimo essere condivisi, genera conflitto e abuso di potere, diffonde arroganza e insegna a trattare male tutti. Non te ne accorgi, e a un certo momento cresce l’assuefazione a ringhiarsi addosso, a sbeffeggiare gli onesti, a diffidare tutti, a essere indifferenti a tutti. Ecco, a quel punto, l’avidità ha fatto il suo lavoro di erosione: si incrinano i pilastri, cedono i ponti. L’assuefazione all’avidità (anche in chi non ci guadagna niente) ha abbassato la soglia di allerta, ha liberalizzato la soglia della decenza, ha imparato a giustificarsi come un diritto. Infine, si insedia come uno scopo. Nella scena evangelica seguente, arriva la rivelazione che ci è necessaria. Subito dopo il battesimo di Giovanni, Gesù entra nella sinagoga di Nazaret, riceve il rotolo del profeta Isaia – sempre lui – e trova un altro passo. «Lo Spirito del Signore è su di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio». I segni? Sono segni di guarigione dal male, di liberazione dalla schiavitù, di restituzione della speranza. Sono i segni dello Spirito al lavoro. E del fuoco che riscalda l’umana convivenza, ridestando speranza per il suo riscatto, capace di un calore che Dio soltanto può infondere. È la pars construens, il lato costruttivo che ci mancava. Il vangelo di Gesù rilancia, non si accontenta del pareggio. Colmati i fossati, spianati gli ostacoli, deve rientrare in circolazione la passione di non lasciare indietro nessuno, l’entusiasmo di riaggregare i dispersi e gli smarriti, la gioia di dividere le cose buone, i pensieri migliori, i fondamentali dell’umano, i legami che ci sostengono l’anima. L’effetto implacabile dell’avidità, infatti, è l’indifferenza. Può sembrare, all’inizio, che l’avidità accenda il desiderio. Lo ammazza invece. L’avidità trasforma la città in un formicaio impazzito. L’indifferenza desertifica l’anima. Come già l’avidità, anche l’indifferenza, ora, sta cercando di accreditarsi ai piani nobili (si fa per dire) della coscienza collettiva. L’indifferenza ha il ciglio asciutto e razionale, non si aspetta più niente da Dio (e neppure dagli uomini). È agnostica, nella sua versione elegante, anche verso la moralità condivisa. Istruisce l’individuo emancipato a pensare semplicemente a se stesso, come fosse una superiore forma di modestia intellettuale (lo è, in effetti, ma in un altro senso). L’indifferente non pretende di essere sostegno per nessuno, e coltiva l’ambizione di essersi fatto esclusivamente da sé (a parole). Questa perfetta indifferenza a Dio e al prossimo non è autonomia. L’indifferentismo è parassitismo. Non c’è che Dio, in Spirito e fuoco, che possa illuminarci e riscaldarci al riguardo. Il Signore viene, e ce lo spiega: con parole e segni inequivocabili. Se questa volta lo lasciamo arrivare fino al cuore, ci sentiremo come liberati da un brutto sogno. Impareremo anche a commuoverci e a sorriderci, dalla voglia che avremo di ricominciare insieme.

L’appello del Pontefice: “I potenti non rubino” di G.G.V.

Città del Vaticano - «La conversione comincia dall'onestà e dal rispetto degli altri: un'indicazione che vale per tutti, specialmente per chi ha maggiori responsabilità». Benedetto XVI, all'Angelus di ieri, si è rivolto in particolare a chi ha potere e incarichi pubblici ricordando il settimo comandamento: non rubare. Una riflessione che parte dalla risposta che Giovanni Battista, nel Vangelo, dà ai «pubblicani», gli esattori delle tasse per conto dei romani: «Già per questo i pubblicani erano disprezzati, e anche perché spesso approfittavano della loro posizione per rubare», ha spiegato il Papa. «Ad essi il Battista non dice di cambiare mestiere, ma di non esigere nulla di più di quanto è stato fissato. Il profeta, a nome di Dio, non chiede gesti eccezionali, ma anzitutto il compimento onesto del proprio dovere». Insomma, «il primo passo verso la vita eterna è sempre l'osservanza dei comandamenti, in questo caso il settimo: non rubare». Giovanni si rivolge anche ai soldati, «categoria dotata di un certo potere e quindi tentata di abusarne», e dice loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». Parole di «grande concretezza» che valgono ora come allora, ha spiegato il Pontefice: «Dal momento che Dio ci giudicherà secondo le nostre opere, è lì, nei comportamenti, che bisogna dimostrare di seguire la sua volontà. E proprio per questo le indicazioni del Battista sono sempre attuali: anche nel nostro mondo così complesso, le cose andrebbero molto meglio se ciascuno osservasse queste regole di condotta». Del resto vale per tutti, è alla folla che Giovanni dice: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Benedetto XVI commenta: «Qui possiamo vedere un criterio di giustizia, animato dalla carità. La giustizia chiede di superare lo squilibrio tra chi ha il superfluo e chi manca del necessario; la carità spinge ad essere attento all'altro e ad andare incontro al suo bisogno, invece di trovare giustificazioni per difendere i propri interessi».

mercoledì 5 dicembre 2012

I distruttori delle riforme di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi L’insostenibile peso della burocrazia

Si dice spesso che le riforme non si fanno perché lo slancio riformatore di molti governi (compreso quello attuale) è bloccato dai partiti, i quali in Parlamento difendono gli interessi di chi, per effetto di quelle riforme, perderebbe i propri privilegi. Vero, ma non è l'unico scoglio. Un altro ostacolo, altrettanto importante, è frapposto dalla burocrazia e dai suoi alti dirigenti. Un esempio: da oltre sei mesi si discute di come eliminare i sussidi e le agevolazioni di cui godono talune imprese (senza vi sia alcuna evidenza che questi aiuti favoriscano la crescita), in cambio di una riduzione del cuneo fiscale, cioè restringendo la forbice che separa il costo del lavoro per l'impresa dal salario percepito dal lavoratore. È una scelta con la quale concordano sia Confindustria sia i sindacati. Ma la proposta, pur auspicata dal presidente del Consiglio, non è neppure arrivata in Parlamento: da mesi la burocrazia la blocca. Perché? Semplice: eliminare questo o quel sussidio significa chiudere l'ufficio ministeriale che lo amministra e assegnare il dirigente che lo guida a un diverso incarico. Ciò per lui significa perdere il potere che deriva dall'amministrare ingenti risorse pubbliche. È così che i dirigenti si oppongono sempre e comunque a riduzioni della spesa che amministrano, indipendentemente dal fatto che serva, o meno, a qualcosa. Ma basta questo per bloccare una riforma che anche i partiti in Parlamento auspicano? Perché la burocrazia ha questo potere? Fino a qualche anno fa i funzionari erano di fatto inamovibili: i ministri andavano e venivano, ma i dirigenti dei ministeri rimanevano. Non è più così. Oggi gli alti funzionari si possono sostituire, e tuttavia nulla è cambiato. Il motivo del loro potere è più sottile e ha a che fare con il monopolio delle informazioni. La gestione di un ministero è una questione complessa, che richiede dimestichezza con il bilancio dello Stato e il diritto amministrativo, e soprattutto buoni rapporti con la burocrazia degli altri ministeri. I dirigenti hanno il monopolio di questa informazione e di questi rapporti, e hanno tutto l'interesse a mantenerlo. Hanno anche l'interesse a rendere il funzionamento dei loro uffici il più opaco e complicato possibile, in modo da essere i soli a poterli far funzionare. E così quando arriva un nuovo ministro, animato dalle migliori intenzioni (soprattutto se estraneo alla politica e per questo più propenso al cambiamento), a ogni sua proposta la burocrazia oppone ostacoli che appaiono incomprensibili, ma che i dirigenti affermano essere insormontabili. E comunque gli ricordano che prima di pensare alle novità ci sono decine di scadenze e adempimenti di cui occuparsi: non farlo produrrebbe effetti gravissimi. Spaventato, il ministro finisce per affidarsi a chi nel ministero c'è da tempo. È l'inizio della fine delle riforme. E se per caso il governo ne vara qualcuna senza ascoltare la burocrazia, questa mette in campo uno strumento potente: solo i dirigenti, infatti, sono in grado di redigere i decreti attuativi, senza i quali la nuova legge è inefficace. Basta ritardarli o scriverli prevedendo norme inapplicabili per vanificare la riforma. Prendiamo il caso delle pur timide liberalizzazioni varate in primavera con il decreto «cresci Italia»: come ricordava il Corriere il 19 novembre, fino a poche settimane fa, su 53 regolamenti attuativi ne erano stati emanati soltanto 11. Che fare? La prima decisione di ogni nuovo ministro deve essere la sostituzione degli alti dirigenti del ministero che gli è stato affidato, a partire dal capo di gabinetto. Il ricambio deve cominciare da coloro che da più tempo occupano lo stesso posto e per questo sono spesso i più conservatori, cioè i meno propensi al cambiamento. I costi sono ovvi: un nuovo dirigente ci metterà un po' a prendere in mano le redini del ministero. Ma è un costo che val la pena pagare, quanto più si vuol cambiare. Certo, c'è il rischio che le nomine siano solo politiche, e cioè che invece di dirigenti preparati il ministro scelga in base alle appartenenze politiche. Questo è possibile, ma saranno poi gli elettori a decidere se un governo ha cambiato qualcosa. E i cittadini giudicheranno un governo anche dalla qualità delle persone cui ha affidato l'amministrazione dello Stato. È comunque un sistema migliore di quello di oggi in cui dirigenti non eletti ostacolano e influenzano l'operato di governi eletti direttamente, o indirettamente come nel caso di questo governo «tecnico».

venerdì 30 novembre 2012

A proposito di maree

Sta Mattina ore 6.30 suonano le sirene per allertarci ad una marea di 130 cm sul medio mare , dopo un' oretta arriva una mail dicendo che a causa del vento cambiato la marea salirà fino a 105 cm , ma ieri sera la previsione era di 110 cm .
Allora mi chiedo , visto anche tutti i discorsi sull'Open data che si stanno facendo in questi giorni e visto che l'ing Canestrelli ha detto che l'algoritmo per le previsioni è vecchio, perchè non mettere on line tutti i dati statistici sulla marea e lanciare un appello perchè qualche cervellone faccia gratuitatamente un algoritmo nuovo?
Non avevano fatto inoltre degli accordi con la Croazia per avere dei dati più precisi per elaborare le previsioni ?
E tanto per finire com'è che la nostra amministrazione non è riuscita a strappare una convenzione conveniente con l'operatore telefonico deputato per gli sms di allertamento e li paga ancora 8 centesimi?E' stato fatto un bando per questo servizio ? Se siamo in clima di risparmio , potremmo anche cominciare da queste piccole cose no?
Anna Brondino

mercoledì 28 novembre 2012

Valori etici e sociali, la bussola in politica di Lorenzo Rosoli La diocesi di Milano ricorda i “principi irrinunciabili” in vista delle elezioni. Chi si candida si dimetta dagli incarichi ecclesiali

Cattolici e politica. La bussola? I «principi irrinunciabili» del magistero ecclesiale sui temi etici e sociali. Lo stile? Il rigore morale, l’attenzione alla gente, lo spirito di servizio, la professionalità. La capacità «non solo di rifiutare ogni forma di corruzione ma anche di anteporre il bene comune ai propri anche legittimi interessi di parte». Queste – si legge in una nota del Consiglio episcopale della diocesi di Milano – siano le coordinate di quanti, «a maggior ragione i cattolici», si candidano a servire la Lombardia e il Paese, consapevoli della posta in gioco: «In un momento in cui il perdurare della crisi economica sta generando paure e insicurezze che rendono più fragile il legame tra i cittadini, occorre che la politica sappia elaborare risposte all’altezza della situazione, capaci non soltanto di farci uscire dal periodo di difficoltà, ma di migliorarci. Un clima di fiducia – prosegue la nota, diffusa ieri – sarà realizzabile se insieme si lavorerà per salvaguardare dall’erosione dell’individualismo le questioni etiche rilevanti, promuovendo i valori ispirati alla retta ragione e al Vangelo». Con questa nota il Consiglio episcopale diocesano – l’organismo che raccoglie i più stretti collaboratori del cardinale arcivescovo di Milano, Angelo Scola – «offre alcune indicazioni per vivere con responsabilità» questo tempo, «all’avvio di una lunga campagna elettorale che culminerà con le elezioni del Consiglio regionale lombardo e del Parlamento della Repubblica italiana». Nessuna ingerenza della gerarchia cattolica, nessuna lesa laicità: «La Chiesa – spiega la nota attingendo all’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI – non pretende minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati. Ha però una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua vocazione». E questo tempo chiama le comunità cristiane ad una «necessaria e urgente opera educativa» perché tutti siano sollecitati alla «partecipazione attiva e responsabile a questi appuntamenti elettorali». La sfida: contrastare la tentazione crescente del di­simpegno e del disinteresse sui temi del bene comune. «A nessuno deve sfuggire l’importanza dell’esercizio del diritto-dovere del voto responsabilmente espresso». Perciò si auspica che «il confronto tra le parti sia sereno e leale» e «si svolga su programmi ben articolati». Ma serve anche «l’impegno attivo di un numero sempre maggiore di laici cristiani nell’attività amministrativa e politica». Non sarà l’antipolitica a guarire il Paese dalla cattiva politica. Ma per la buona politica serve una bussola affidabile. «I cattolici – prosegue la nota – faranno riferimento ai principi irrinunciabili dell’insegnamento del Magistero della Chiesa sulla famiglia, aperta alla vita, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, sul rispetto per la vita dal suo concepimento al termine naturale, sulla libertà religiosa, sul diritto alla libertà di educazione dei genitori per i propri figli, sulla tutela sociale dei minori e delle vittime delle moderne forme di schiavitù, sullo sviluppo di un’economia che sia al servizio della persona e del bene comune, sulla giustizia sociale, sul ruolo da riconoscere ai principi di solidarietà e di sussidiarietà, sulla pace come valore supremo a cui tendere». Su questi punti si cerchi di costruire «un consenso il più possibile condiviso e diffuso». Tutti i candidati, «a maggior ragione i cattolici», si impegnino a «ridare fiducia al Paese e ai suoi abitanti, presentando programmi e proposte realmente tese a costruire il bene comune: non prevalga la tentazione del disfattismo». E siano «esemplari» per rigore morale, disinteresse, competenza: solo così sarà possibile rafforzare la «credibilità» della politica.

Si avvicinano le elezioni. E l’«opera educativa delle comunità cristiane» sui temi del bene comune e in vista di una «partecipazione attiva responsabile» è sempre più «necessaria e urgente». Ma vanno evitate in ogni modo «strumentalizzazioni». Perciò la nota del Consiglio episcopale milanese, diffusa ieri, ricorda «le disposizioni diocesane» in base a cui parrocchie, scuole cattoliche, associazioni e movimenti non devono mettere sedi e strutture a disposizione delle iniziative di singoli partiti o formazioni politiche. «Si vigili – prosegue la nota – per evitare che le attività pastorali vengano strumentalizzate a fini elettorali». Chi appartiene a organismi ecclesiali, «a maggior ragione» chi occupa cariche di rilievo, se intende candidarsi, si consideri sospeso da quegli organismi; se eletto, lascerà l’incarico. Chi ha incarichi negli organismi e nelle istituzioni ecclesiali, si astenga «rigorosamente» da ogni coinvolgimento elettorale. E lo stesso facciano sacerdoti, diaconi e consacrati.

La navigazione della fede di Gianfranco Ravasi

Il tema della fede si può ignorare ma non evitare. Spesso, infatti, incrocia la strada persino di quelli che stanno andando altrove. San Paolo, che pure di questo era ben consapevole, si stupiva ancora leggendo e citando Isaia mentre scriveva ai Romani: «Isaia arriva fino a dire: Sono stato trovato anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a quelli che non mi invocavano» (10, 20). In piena rivoluzione sovietica, nel 1918, Aleksandr Blok componeva il poema I dodici e nel diario era costretto ad annotare: «Quando l’ebbi finito, mi meravigliai io stesso: perché mai Cristo? Davvero Cristo? Ma più il mio esame era attento, più distintamente vedevo Cristo. Purtroppo Cristo. Purtroppo proprio Cristo!». In questo Anno della fede vorremmo tentare - attraverso una serie di articoli, simili a vere e proprie puntate tematiche - qualche sondaggio molto libero e non sistematico nell’orizzonte dell’incredulità che, però, si incontra o si scontra con la fede, reagendo nelle forme più diverse. All’amico Janouch, che lo interrogava su Cristo, Kafka rispondeva: «È un abisso di luce, bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi». Lo scrittore franco-rumeno Emile Cioran, che si dichiarava di «professione atea», confessava di continuare a spiare Dio e, disarmato, annotava: «Quando voi ascoltate Bach, vedete nascere Dio. Dopo un oratorio, una cantata o una Passione, Dio deve esistere. Pensare che tanti teologi e filosofi hanno sprecato notti e giorni a cercare prove sull’esistenza di Dio, dimenticando la sola!». L’esperienza di Paolo ci fa comprendere che la fede non è solo una questione dell’uomo ma anche di Dio. È lui che si mette sulle vie dell’umanità e si para innanzi alla sua creatura: sta alla persona, con la sua libertà, fermarsi o scansarlo o ignorarlo. Emblematica è la scena folgorante dell’Apocalisse (3, 20) ove Cristo sta alla porta e bussa. Se non passasse, noi resteremmo chiusi nella stanza della nostra storia e della nostra razionalità. Egli, però, interviene e tutta la storia della salvezza è proprio questo, cioè il passaggio del «Dio di carne che non sta cacciato in alto, incagliato tra le stelle», come scriveva il poeta russo Majakovskij nella sua raccolta lirica 150.000.000. Tuttavia è indispensabile in quella scenetta dell’Apocalisse, un’altra componente: l’apertura della porta, ossia l’atto libero dell’uomo. Grazia e fede sono un binomio inscindibile, perché noi non siamo stelle o pietre o semplici bestie istintuali; in noi pulsa la libertà, la volontà, la scelta. Solo dopo questo incontro tra noi e Lui, scatta l’intimità della comunione: «io cenerò con Lui ed egli con me». Jean Cocteau nel suo Diario di uno sconosciuto curiosamente invertiva uno schema naturale: «Prima trovare, poi cercare». Questa è, appunto, la logica della fede, che assegna il primato alla grazia (“trovare”), ma ribadisce la necessità della libertà (“cercare”). Per questo, Bultmann aveva intitolato la sua raccolta di saggi Credere e comprendere perché la fede non è frutto di un itinerario meramente razionale, di un sillogismo stringente, di una dimostrazione matematica. È il Credo ut intelligam, il credere per capire di Agostino, seguito da Pascal secondo il quale «le cose umane bisogna capirle per amarle; le cose divine bisogna amarle per capirle». Nelle Lettere di Nicodemo lo scrittore polacco Jan Dobraczyński osservava: «Vi sono misteri nei quali bisogna avere il coraggio di gettarsi per toccare il fondo, come ci gettiamo nell’acqua, certi che essa si aprirà sotto di noi. Non ti è mai parso che vi siano delle cose alle quali bisogna prima credere per poterle capire?». L’immagine del mare in cui gettarsi - che Robert Musil nel suo Uomo senza qualità aveva adottato per parlare della verità (un mare in cui procedere in ricerca) - è una delle simbologie più frequenti applicate al percorso di fede, a partire da sant’Agostino con l’idea delle diverse navigazioni necessarie alla conoscenza umana, razionale e teologica. Uno dei più significativi filosofi del Novecento, Ludwig Wittgenstein, definiva la religione come «il fondale marino più profondo e calmo, che rimane tranquillo per quanto alte siano le onde in superficie». Già il grande scrittore mistico cinquecentesco spagnolo Frey Luis de León riconosceva che «in Dio si scoprono nuovi mari quanto più si naviga». Se è lecita una testimonianza personale, dirò che, avendo approntato in questo mese una mappa essenziale della fede cristiana, l’editore “laico” non ha avuto esitazione nell’assegnarmi il titolo Guida ai naviganti, anche perché io stesso nel tracciare narrativamente l’itinerario del credere ricorrevo proprio a questa metafora. Un aforisma orientale, però, va oltre mettendo in scena due uomini che s’addentrano «nel grande mare della religione: uno ne uscì vivificato e trasformato, l’altro vi annegò». Aveva ragione, pur nel suo scetticismo, il filosofo settecentesco inglese David Hume quando dichiarava che «gli errori della filosofia sono sempre ridicoli, quelli della religione sono sempre pericolosi». Il fondamentalismo radicale lo insegna. Eppure la nostalgia dell’infinito è attaccata al cuore dell’uomo e la necessità di immergersi e di navigare è insita all’anima e alla mente che cerca di trascendere gli orizzonti limitati. Aveva, perciò, ragione anche un altro autore tendenzialmente scettico come Anatole France quando scriveva che «per compiere grandi passi, non dobbiamo solo agire ma anche sognare, non basta pianificare, bisogna anche credere». In questo infinito, che ci accoglie nel suo grembo, respira il mistero di Dio al punto tale che un maestro indiano al discepolo che gli chiedeva di aiutarlo a trovare Dio replicava che nessuno lo poteva guidare «per la stessa ragione per cui nessuno può aiutare un pesce a trovare l’oceano». Certo è che non tutti si azzardano in questa navigazione, né sono consapevoli delle onde dell’oceano che pure battono sulla loro pelle, preoccupati come sono di tutelare i confini della loro isola creaturale, finita e chiusa in se stessa (per usare un’altra immagine del filosofo Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus). È questa la vera incredulità, cioè l’indifferenza rispetto a ogni altro quesito che riguardi l’Oltre e l’Altro trascendenti. Sartre nella sua opera Parole descrive la sua adolescenza con un padre protestante, che muore quando egli ha due anni, mentre la madre cattolica ripara dai nonni indifferenti. Alla fine confessa di essere stato condotto all’incredulità «non dai conflitti dei dogmi, bensì dall’indifferenza dei miei nonni». Anche la sua compagna, Simone de Beauvoir, rievoca la sua giovinezza nelle Memorie di una ragazza perbene con una madre devota e un padre indifferente. Alla fine la scelta è chiara: «Dio proibiva una quantità di cose ma non esigeva niente di positivo, all’infuori di qualche preghiera e di qualche pratica che non modificavano la vita». Simone abbandona, così, la via religiosa, deformata da questa concezione così minimalista e piccolo-borghese, espellendola dal suo orizzonte intellettuale ed esistenziale. L’indifferentismo religioso è tendenzialmente il nome nuovo e più pericoloso dell’ateismo nella società secolarizzata contemporanea. Esso era già delineato da Cecilia, la protagonista della Noia di Alberto Moravia: «La religione è noiosa, al convento ho sempre avuto impressione che le monache s’annoiassero come si annoiano i preti e in genere tutti quelli che si occupano di religione. Guardate mentre stanno in chiesa, vedrai che non ce n’è nessuno che non s’annoi da morire». Dio non è combattuto ma ignorato; non è oggetto di contestazione ma è considerato un tema insignificante, fastidioso e noioso. Spesso alla base c’è l’equivoco che identifica tout court religiosità generica e fede autentica. La pratica religiosa, infatti, di non pochi cristiani si rivela segnata da ipocrisia, da compromessi morali, da un’adesione passiva alle tradizioni, da un perbenismo etico, da interessi politici e così via. Ma questa, come insegna Cristo, è piuttosto una malattia della religione. Eppure, unita al consumismo, alla superficialità imperante, alla caduta della morale, questa patologia genera in molti l’estinzione dell’interrogazione spirituale. Augusto Del Noce, in un suo intervento al primo Meeting di Rimini poco prima della morte avvenuta nel 1989, sottolineava che «un nuovo avversario del cristianesimo è cresciuto negli ultimi decenni: la forma di religione propria della società opulenta e consumistica. È un avversario più potente e pericoloso del comunismo ateo». In questo orizzonte secolarizzato e spiritualmente grigio, vale la sarcastica considerazione del poeta e cantautore Jacques Prévert: «Dio, sorprendendo Adamo ed Eva, disse loro: Continuate, ve ne prego; non disturbatevi per me. Fate come se io non esistessi!». Il suo nuovo “Padre nostro” è, allora, questo: «Padre nostro che sei nei cieli, restaci!». Ecco, allora, un interrogativo di base: nell’attuale cultura “debole” e “liquida” gli interrogativi forti e solidi della teologia hanno ancora la possibilità di risuonare? È la domanda che lo stesso cardinale Joseph Ratzinger poneva sul tappeto nell’ormai famoso dialogo con Habermas: «L’eliminazione graduale della religione, il suo superamento dev’essere considerato come un progresso necessario dell’umanità, affinché essa giunga sulla strada della libertà e della tolleranza universale?». L’impressione realistica - al di là delle molteplici analisi condotte (si pensi a quella imponente offerta dal saggio L’età secolare di Charles Taylor) - è che il “disincanto” e la “de-divinizzazione” (Entgötterung) operata dall’indifferenza religiosa tipica della secolarizzazione abbiano creato non tanto un progresso liberatorio quanto piuttosto un inaridimento morale ed esistenziale e uno svuotamento di senso. La pur nobile fiducia nella tecnoscienza riesce a evadere solo le domande sulla “scena” dell’essere e dell’esistere, non sul loro “fondamento” e significato. Alla fine lo statuto di inerzia religiosa, che abbiamo abbozzato e che pone problemi seri e complessi all’evangelizzazione, alla pastorale e alla stessa cultura ecclesiale, può essere illustrato con la suggestiva ripresa dell’episodio evangelico di Zaccheo operata da Montale nella poesia intitolata appunto Come Zaccheo: «Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro / per vedere il Signore se mai passi. / Ahimé, non sono un rampicante ed anche / stando in punta di piedi non l’ho visto». Fermiamoci per ora qui nel nostro viaggio dedicato al confronto spesso dialettico tra fede e cultura. Altre tappe sono possibili: ne selezioneremo in futuro alcune, nella consapevolezza che non sarà facile percorrere tutti i sentieri e i meandri del credere, memori delle battute del Faust di Goethe: «Chi oserà dire: Io credo in Dio? / Puoi domandare a preti o a saggi / e la risposta sembrerà prendere in giro / chi ha fatto la domanda (I, 3426-30)».

sabato 24 novembre 2012

Giornata contro la violenza sulle donne

Domani è la giornata contro la violenza sulle donne , ci dobbiamo fermare a riflettere come mai nonostante tutte le campagne fatte dalle istituzioni ci siano ancora molte donne che subiscono maltrattamenti psicologici e fisici e che soffrano in silenzio.
Una legge antistalking è stata approvata , ma forse il percorso di denuncia è ancora troppo difficile e il coraggio e la forza d'animo a volte non sono sufficienti.
Il problema non è solo “fisico” , ma anche ed essenzialmente culturale. Per vedere un po' di luce infondo al tunnel dobbiamo fare un grossissimo lavoro di educazione nelle nuove generazioni e di riconversione alla dignità di tutte le persone negli adulti .
Mille sono le sottili discriminazioni che le donne vivono quotidianamente , sto pensando all'assenza di parcheggi rosa ,e di casse per le donne incinte , alle dimissioni in bianco che ancora oggi molte donne sono costrette a firmare , ai licenziamenti delle fabbriche in crisi ( le prime sono le donne) , al partime e al telelavoro che molte volte non vengono concessi …
Quindi , fermo restando che la violenza su un essere umano va condannata comunque , mi sento di dire alle donne che sono im molti casi deputate all'educazione dei figli, cominciamo dalle piccole cose di tutti i giorni ad educare i maschi fin da piccoli alle pari opportunità
.E' un'occasione straordinaria di trasmissione di un sapere che renderà veramente migliore la nostra soscietà

martedì 20 novembre 2012

Attenzione da una Cei che aspetta di capire meglio di Massimo Franco

La benedizione non c'è: non ancora, almeno. E non è detto che arrivi, e neppure che sia attesa. La Chiesa cattolica vuole capire bene che cosa sia spuntato nell'area moderata durante il fine settimana; quanto sia in linea con i convegni di Todi promossi nell'ultimo anno; e se l'iniziativa che ha come capifila il presidente della Ferrari, Luca Cordero di Montezemolo, e il ministro della Cooperazione, Andrea Riccardi, moltiplicherà davvero la partecipazione in nome di un progetto di governo. Si sa che la Cei nell'ultima fase ha sostenuto il premier; e che i rapporti personali fra Benedetto XVI e Monti sono ottimi. Ma sul piano politico, il ruolo della Chiesa rimane segnato dalle convulsioni della Seconda Repubblica. Questo spiega l'attenzione e insieme la cautela nei confronti di quanto si sta muovendo. L'episcopato appare diviso fra chi in prospettiva punta ancora sul centrodestra; e chi, pur volendo la nascita di un altro «centro», teme sia privo di forza elettorale e subalterno alla sinistra. Alcune voci accreditano una velata freddezza dei vertici della Cei, che avrebbero voluto un riferimento esplicito alla difesa dei «valori non negoziabili» (no all'aborto, all'eutanasia, ai matrimoni fra omosessuali): sebbene non risulti, si fa notare, una richiesta in tal senso. Ma forse il vero spartiacque è, in Italia come in altri Paesi occidentali, fra chi ritiene che l'appartenenza religiosa vada rivendicata e affermata anche sul piano politico; e chi ritiene invece che questo approccio condanni la Chiesa e i suoi seguaci a una condizione di minoranza; al rischio di essere strumentalizzata da chi brandisce i suoi valori, e di vedere prevalere i suoi avversari ideologici. Insomma, è in atto un confronto aspro sul modo di declinare la presenza dei cattolici in politica: un dilemma drammatizzato dalle divisioni profonde, spesso irriconciliabili fra le sue componenti. Così, nonostante Monti sia apprezzato in Vaticano e tempo fa abbia incontrato anche il capo dei vescovi italiani, cardinale Angelo Bagnasco, eventuali punti di contatto non riguardano le strategie e le alleanze politiche ma il ruolo del governo: sul piano interno e internazionale. Fra l'altro, il presidente del Consiglio ha sempre tenuto a separare il suo ruolo istituzionale dalle sue convinzioni religiose: pur essendo notoriamente un cattolico convinto. Fra i promotori del movimento nato sabato scorso, la parola d'ordine di fatto è un trasversalismo che può suonare ambiguo ma è anche considerato un elemento di novità; e un modo per aiutare Monti. D'altronde, il progetto è quello di creare un'area moderata che appoggi Palazzo Chigi e spinga per la conferma del premier. Ma la spinta iniziale è stata quella di combattere il fenomeno dell'astensionismo, arrivato a percentuali inquietanti; e di contrastare la tentazione di una sorta di «grillismo bianco» antigovernativo e antipolitico da parte di spezzoni del mondo cattolico. Si tratta di un processo appena agli inizi. Tende a fare emergere le contraddizioni di un mondo sospeso per anni, anche suo malgrado, nell'orbita berlusconiana. Inutile forzare le tappe: occorrerà tempo per trovare un baricentro e interlocutori diversi.

Il manifesto del nuovo centro e i distinguo del mondo cattolico di Paolo Conti

- La convention di «Verso la Terza Repubblica» ha aperto un immediato confronto tra le diverse realtà cattoliche che guardano con forte interesse all'iniziativa. Sul palco, con Luca Cordero di Montezemolo, c'erano per esempio Andrea Riccardi, ministro del governo Monti ma soprattutto fondatore della Comunità di Sant'Egidio, e Andrea Olivero, presidente delle Acli. E sono già cominciati i distinguo. Primo tra tutti, e forse il più significativo, quello di Carlo Costalli, presidente del Movimento cristiano dei lavoratori, ovvero Mcl. Dopo le dimissioni di Natale Forlani è anche il portavoce pro tempore di Todi 2, il nuovo Forum delle associazioni cattoliche italiane. La posta in gioco: i «valori non negoziabili» (la difesa della vita, della famiglia fondata sul matrimonio, solo per fare un sintetico esempio) e le questioni sociali che spingono i cattolici a un rinnovato impegno politico. Dice Costalli: «Una delle motivazioni che ci spingono a mantenere una posizione di attesa è proprio l'assenza, nelle dichiarazioni iniziali e nei discorsi, di quei valori non negoziabili che per noi sono essenziali. Così come non ho trovato alcun accenno all'economia sociale di mercato». Non è proprio una bocciatura ma un distinguo sì. Costalli ricorda un dato per lui essenziale: «Todi 2 si è ricompattata su un documento molto chiaro in cui quei valori sono chiaramente presenti. Dunque dovremo riunirci, parlare, riflettere. Vogliamo arrivare unitariamente a una decisione e sarebbe sbagliata qualsiasi fuga in avanti. E altrettanto sbaglierebbe se qualcuno se l'aspettasse». A cosa si riferisce, presidente Costalli? «Sappiamo bene che quei valori creano non pochi problemi nell'area laica. Ma noi non possiamo né vogliamo rinunciarci, come qualcuno in realtà vorrebbe». I «si dice» si susseguono. Si parla di una preoccupazione della Conferenza episcopale italiana. Non solo per il testo iniziale della convocazione ma anche per la sorte dei Movimenti cattolici: un conto sarebbe un lavoro per dar vita a un vasto raggruppamento capace di attirare consistenti consensi elettorali, giustificando l'impegno di associazioni forti di migliaia di aderenti. Altro sarebbe un allargamento di Italia Futura. Non è un caso forse che, pur sollecitati, altri interlocutori come Sergio Marini (Coldiretti) e Luigi Marino (Confcooperative) preferiscano non intervenire nel dibattito. Andrea Olivero però ribatte: «Io, dal palco della convention, ho ricordato con chiarezza i nodi che ci premono. Cito letteralmente: "Voglio qui portare i valori che mi sono e ci sono più cari come cattolici. La tutela e la promozione della vita, a partire da quella più fragile e indifesa. La famiglia fondata sul matrimonio e aperta alla generatività, la libertà di educazione...". Naturalmente le ho presentate come proposte laicamente fondate, altrimenti sarei un integrista». Ma quale evoluzione si può immaginare? «Ricordo che il documento di convocazione non può essere inteso come programma fondante di un soggetto che è ancora tutto da definire. Nelle prossime settimane, quando si deciderà il tipo di impegno, si uscirà sicuramente dalla genericità approdando a una sintesi». Molto più neutra, infine, l'analisi di Gianfranco Brunelli, direttore del quindicinale «Il Regno» del Centro editoriale dei padri dehoniani: «Non mi risulta che il movimento patrocinato da Montezemolo possa essere definito come "formazione cattolica". Questo dibattito mi sembra mal impostato. Tocca di fatto al singolo cattolico impegnato in politica difendere e incarnare certi valori. Perché l'ispirazione cristiana di origine è immensamente più grande di qualsiasi luogo concreto in cui si possa esercitare una responsabilità politica...».

lunedì 19 novembre 2012

La vicenda Scalera ..uno scandalo

Alla cortese attenzione
del Sindaco Massimo Cacciari;
dell’assessore al Patrimonio e ai Lavori Pubblici Mara Rumiz



Oggetto: Edilizia Convenzionata Pubblica nell’area Scalera


L’Associazione 40xVenezia, tra i cui scopi rientra la difesa e la rinascita del tessuto socio-economico della città storica, chiede al Comune di Venezia lo stato di sviluppo del progetto di Edilizia Convenzionata Pubblica dell’area Scalera, rientrante nel più ampio accordo con Aqua Marcia relativo al recupero del Molino Stucky.
Facendo seguito al nostro Documento Casa 1.0 - presentato nel maggio 2008, che vi alleghiamo – e agli articoli non esaustivi usciti sugli organi di stampa, sottolineiamo la necessità di mantenere alta l’attenzione sulla realizzazione e soprattutto sulla assegnazione delle case pubbliche della Scalera.
A tal proposito chiediamo all’amministrazione comunale nelle persone del sindaco Massimo Cacciari e dell’assessore del Patrimonio e dei Lavori Pubblici Mara Rumiz:

  • quale sia la quantità esatta, tra gli alloggi in corso di realizzazione, di quelli destinati alla vendita a prezzo convenzionato e quale il numero da assegnare in locazione alle fasce protette;
  • quale sia il taglio dei predetti alloggi;
  • quali siano i criteri previsti dal bando per l’assegnazione;
  • quali siano le modalità previste per favorire lo scorrimento della graduatoria in modo da scongiurare il rischio che alloggi destinati ad uno scopo di difesa del tessuto sociale finiscano sul libero mercato;
  • quali garanzie il Comune abbia attivato affinché le clausole previste dalla convenzione con Aqua Marcia abbiamo sufficiente copertura;
  • quali considerazioni siano state fatte in merito all’andamento del mercato immobiliare stante i recenti avvenimenti e quindi quali riflessioni questi eventi abbiano nella determinazione del nuovo prezzo convenzionato.

La presente missiva ha lo scopo di stimolare una efficace azione amministrativa sulle delicate questioni legate alla residenzialità sul territorio comunale, soprattutto riguardo la drammatica situazione della città storica. In attesa di un pronto riscontro a questa lettera ribadiamo la volontà di conoscere nel dettaglio le attività che codesta amministrazione comunale ha in essere, oltreché sull’area Scalera, per le aree di San Giobbe, Italgas (Gasometri S.Marta), San Pietro di Castello, Sant’Elena ex cantiere ACTV, e le politiche di recupero degli alloggi attualmente sfitti all’interno della città storica.
Stante l’estrema urgenza e delicatezza della questione residenzialità, siamo certi di un Vostro tempestivo chiarimento sulle politiche in corso, in mancanza del quale riterremo necessario coinvolgere l’opinione pubblica sul dramma sociale che questa città sta vivendo.

sabato 17 novembre 2012

Il risveglio del doge

Io c'ero e ho parlato di donne a Venezia. donne che in questa città vivono gli inconciliabili tempi del turismo e non hanno i nidi , che non riescono ad entrare nei cda delle partecipate del comune , denno che i partiti candidano come specchietto . Pestiamo i piedi veneziane!!!!
 Questo momento deve far capire alla nostra amministrazione che ci siamo e gli stiamo col fiato sul collo!

domenica 11 novembre 2012

Protocollo acqua alta 40xvenezia

PROPOSTA PER UN PROTOCOLLO DI PROCEDURE COMUNI
PER UN PIANO DI EMERGENZA MAREE


PREMESSA

Da un’indagine svolta all’interno del movimento dei 40xVenezia e tra diversi cittadini ed operatori
commerciali del territorio comunale, sono emerse come avvertite le seguenti necessità:

-condivisione di parametri chiari che definiscano i vari livelli d’emergenza prevista o raggiunta a
cui corrispondano precise sequenze di azioni istituzionali coordinate;

-elaborazione di un piano di “Emergenza Maree” (in caso di Acqua Alta o Acqua Bassa)
supportato da un’adeguata, capillare e tempestiva informazione alla popolazione;

-stesura di un protocollo condiviso che faccia scattare una serie di provvedimenti cautelativi, quali:
a) Interruzione “automatica” di qualsiasi azione sindacale sull’intero territorio comunale
b) Sospensione della raccolta rifiuti e conseguentemente il divieto di lasciare in calle i suddetti da
parte dei cittadini
c) Sospensione delle attività didattiche o alternative alle stesse
d) Istituzione di centri di pronto intervento civile dove le organizzazioni riconosciute di volontariato
possano prestare la propria opera
e) Formazione e informazione cittadina e scolastica del protocollo di emergenza cittadina
f) Coinvolgimento di concessionari di trasporto privato di persone che prestino servizio gratuito di
quanti necessitano di spostamenti urgenti per responsabilità nel piano di emergenza

Fermo restando l'indiscutibile e prezioso impegno profuso da Protezione Civile e volontari, come
40xVenezia abbiamo ipotizzato la possibilità di avviare un tavolo di lavoro cittadino -aperto anche
ad associazioni e altre rappresentanze della società civile veneziana -che elabori un'efficace
integrazione e completamento delle procedure già in essere da parte delle istituzioni preposte
(Comune, Prefettura, Protezione Civile...) nonché del Piano Provinciale di Emergenza, elaborato
come da D.L.vo 112/98, al fine di creare maggiore efficacia e complementarietà tra istituzioni e
cittadini in un’azione comune e corale volta all'affrontare i disagi e i pericoli che situazioni di
emergenza legata alle maree comportano alla popolazione residente e agli ospiti della città.
Siamo infatti fortemente convinti che un ampliamento e un consolidamento di protocolli di
emergenza sia indispensabile, inserendovi eventualmente anche istituzioni ed enti che hanno larga
presenza di sedi ed attività in centro storico.
Inoltre auspichiamo in tal modo di favorire un miglior coordinamento tra centro maree, istituzioni,
enti vari, imprese e cittadini, avvertito dalla città, come si può evincere dalle tante proteste emerse
nei primi giorni di dicembre.

Quale primo strumento di cui dotare tale tavolo, abbiamo quindi elaborato la seguente proposta di
protocollo di procedure comuni per un piano di emergenza “maree”, dove specificare in termini di
competenze e reperibilità, i ruoli che ogni istituzione deve avere nel caso si verifichi l'emergenza.
Poiché qualsiasi piano di protezione civile prevede dei protocolli fra i vari attori che entrano in
gioco in caso di emergenza, detto protocollo deve prevedere un piano di emergenza da aggiornarsi
ogni 6 mesi



LA PROPOSTA

1. Del principio di “Emergenza”
E’ indispensabile arrivare alla definizione chiara e inequivocabile dei parametri che individuano i
vari livelli d’emergenza ai quali corrispondano precise sequenze d’azioni istituzionali coordinate

2. Del potenziamento del Centro Maree
Poiché nell’attuale stato di vulnerabilità la previsione degli eventi eccezionali di acqua alta è alla
base di tutte la catena informativa che permette alla cittadinanza di difendersi per tempo, si ritiene
che la preziosa e indispensabile opera svolta dagli addetti del Centro Maree non solo debba essere
maggiormente conosciuta, ma anche maggiormente valorizzata, ad esempio attraverso azioni di
potenziamento del centro, della sua rete telemareografica e correntometrica e della modellistica
impiegata, da concordare con il centro stesso.

3.Dell’informazione al pubblico

Si ritiene debba essere implementato il servizio di informazione in tempo reale della situazione
maree, segnatamente attraverso:
a) Maggiore promozione del sistema di allerta capillare del rischio acqua alta via sms e sviluppo
dello stesso (anche mediante eventuali accordi con i gestori telefonici volti a contenere i costi);
b) attivazione di specifica messaggistica sui display posizionati presso le fermate degli autobus (o
all’interno degli autobus) ACTV e/o ATVO diretti a Venezia che avvertano del livello dell'acqua,
così che chi arriva dalla terraferma possa regolarsi di conseguenza.
c) attivazione di specifica messaggistica sui display posizionati presso le uscite degli aeroporti
dedicati a Venezia (Tessera e Treviso)
d) Avvisi audio nelle principali Stazioni ferroviarie del Dipartimento Regionale Veneto e
e) Sistema di rilevamento e successiva informazione sul web del centro maree con aggiornamenti in
tempo reale, grazie alle segnalazioni di soggetti aderenti al presente protocollo e presenti nei diversi
punti della laguna.
f) Miglioramento della distribuzione di materiale a stampa (guida con mappa) multi-lingue per
informare anche le presenze straniere sulla tipologia del fenomeno “acqua alta” e le sue
caratteristiche, su eventuali procedure da seguire nonché sui presidi medici, ospedalieri e di pronto
soccorso presenti in città
g) Divulgazione di eventuali messaggi “a voce” almeno anche in inglese, per informare gli stranieri
presenti in città sullo stato della situazione.

4. Delle procedure da attivarsi durante l’alta marea
Premesso che allo stato attuale non ci è stato ancora possibile visionare tutti i documenti relativi alle
eventuali procedure già esistenti in caso di acqua alta della Prefettura, del Comune di Venezia,
dell’Actv, di Vesta, ecc., qualora tali documenti non lo prevedessero già, si propone di includere nel
Piano Emergenza:
a) obbligo di diminuzione dei limiti di velocità dei natanti con una altezza di marea superiore ai 90
cm. ed un divieto di navigazione a motore sopra il metro e 10 (tranne per i servizi pubblici e quelli
ritenuti indispensabili).
b) divieto di mettere fuori le immondizie dopo il suono delle sirene e, se già esposte, l'obbligo di
ritirarle.
c) espressa richiesta agli utenti privati affinché nei due giorni successivi al fenomeno dell’alta
marea seguano scrupolosamente le due tipologie di "differenziata" (carta, vetro e lattine) per
facilitare così lo smaltimento del sovrappiù di immondizie per lo più legate ad attività commerciali
d) utilizzo di passerelle non galleggianti con un sistema rapido di fissaggio ai cavalletti.


5. Del rilevamento di danni
Una volta individuati i diversi livelli d’emergenza, si favoriscano le seguenti azioni:
a) prelievo di campioni d’acqua in punti importanti e strategici della Laguna e dei canali interni
veneziani, al fine di analizzarne la composizione chimica e batteriologica (rischio inquinamento)
b) ai ritiri dei giorni successivi ad un fenomeno di acqua particolarmente alta, Veritas comunichi i
dati (tonnellate o metri cubi) di immondizie raccolte in più rispetto al quantitativo medio

6. Obiettivi e conclusioni
La presente proposta di protocollo – ampliabile – è volta al miglioramento dell’attuale sistema di
procedure da adottarsi fino all’entrata in funzione del sistema di salvaguardia MOSE, chiamato a
garantire il superamento delle problematiche sollevate e delle lacune evidenziate dall’attuale
sistema di gestione dell’emergenza acqua alta.

Si ritiene necessaria una verifica con i diversi soggetti interessati dai contenuti del presente
documento, perciò è nostra intenzione stimolare l’avvio di un ciclo di incontri operativi in cui i
diversi enti e istituzioni possano operare un’analisi tecnica approfondita dello stato d’essere e
confrontarsi sulla fattibilità delle nostre proposte.

Anna Brondino
40xVenezia

giovedì 8 novembre 2012

Bucheremo la sfera di cristallo a Venezia?

Al presidente del consiglio Comunale
Roberto Turetta

Egr Presidente
Abbiamo saputo che il consiglio comunale si appresta a discutere delle prossime nomine per il collegio dei revisori dei conti del nostro comune di Venezia
E' per questo che mi preme farle presente che proprio per dare seguito alla nostra campagna per la sensibilizzaziome delle donne alla presentazione dei curricula per i ruoli dirigenziali negli organismi di controllo e nelle partecipate di questo comune , vorremmo che nella discussione venissero tenute presente le competenze delle donne che hanno presentato il loro curriculum.
Dare spazio alle donne competenti e capaci , non significa togliere posti agli uomini, ma fare un grande salto di qualità culturale e innovativa.
Tutti i cittadini e le cittadine che vogliono mettere al servizio della comunità del nostro territorio il loro tempo e le loro capacità per migliorarne la qualità di vita econimica e culturale, debbono avere pari opportunità di accesso ai ruoli apicali e di controllo.
Questo non può che essere migliorativo e motivante per una gestione della cosa pubblica che intenda avere come scopo ultimo il benessere fisico , economico e culturale di tutti i cittadini.
Siamo sicure che lei si adopererà perchè solo i criteri della competenza e della qualità diventino illuminanti nella scelta delle persone che il consiglio comunale si appresta a designare 
Anna Brondino 

martedì 6 novembre 2012

Arsenale ai veneziani?

Io non credo sia proproio così
Stiamo parlando di 3 milioni di euro che il comune non può più spendere come vuole .
Caro Orsoni dicci che ci vuoi fare con gli spazi che chiedi e non strumentalizzare i movimente e le associazioni per il tuo bilancio
Che mi dici se Arsenale spa vendesse un po' di sue quote ai privati che magari fanno un bel albergo a 5 stelle con campo da golf e darsena?
Perchè tu sindaco e quindi istituzione pubblica delegittimi l'avvocatura di stato , perchè non ti piace ciò che dice?
Attendo risposta

Il metodo dell’ostracismo di Francesco Merlo

Come sempre chi ha idee confuse ha paura delle idee. E dunque Grillo e i suoi pasdaran, per paura delle idee di Federica Salsi, hanno deciso di punirla e l'hanno isolata anche fisicamente, come fanno i talebani con le donne che hanno rotto il patto d'onore. Mancava solo che le tirassero le pietre. E infatti, quando nel consiglio comunale di Bologna lo spettacolo è diventato grottesco, la Salsi si è sentita - ha detto - "lapidata in pubblico". E le pareva - ha aggiunto - di essere "dentro Scientology" perché questo cieco fanatismo grillino sarà pure comicità che si fa tragedia, ma chissà quanti vaffanculo stanno diventando concreti e duri sulla pelle di una donna viva e sensibile. E infatti le è sembrato di subire - ha scandito - "una violenza" quando il suo compagno e collega Massimo Bugani si è alzato e l'ha lasciata sola pronunziando frasi sconnesse ma tonitruanti come questa: "Io credo che per me parli la mia storia" (la geografia è afasica?). Come si vede, il linguaggio è ridicolo ma anche allarmante. Ascoltiamo ancora questo goffo Carneade che, confortato da Momsen e da Polibio, si appella "alla mia vita e al mio impegno su questi temi all'interno del consiglio comunale". Ecco: "Questi temi" erano la partecipazione a Ballarò della lapidanda e disonorata Federica e non i rumori di guerra atomica tra Iran e Israele. E però dietro la nostra facile risata c'è la preoccupazione per il vuoto delirio che la Storia ci ha fatto ben conoscere nella sua versione grandiosa e che adesso Grillo ci ripropone in chiave buffa e mostruosa ma pur sempre violenta, tragicomica appunto. Pensate che Bugani si è fatto fotografare mentre fa il gesto di vittoria come Churchill con alle spalle l'emblema del Movimento 5 stelle e addosso una t-shirt con su scritto: "Io siamo Massimo Bugani". Certo, questo invasamento somiglia più a quello di Sandro Bondi per Berlusconi che alla mistica dei comunisti per Stalin, ma la banalità dello squilibrio è la stessa. Grillo - ha raccontato ieri il quotidiano Pubblico - ha compilato una lista di cronisti da evitare, di giornali a cui non concedere interviste, di programmi televisivi da boicottare. Macchiettisco dunque. E tuttavia violento. E non verso i giornali (chi se ne importa) ma verso i militanti che se disobbediscono e vanno a Ballarò vengono appunto lapidati come Federica Salsi. E sono i tipici sintomi di quelle febbri da teste calde. Pensate che il nostro Carneade produce video inchieste per il movimento, il gruppo virtuale dei grillini, firmate con il soprannome di un pirata, "Nick il nero", proprio come un tempo i ragazzi di Farinacci adottavano nomignoli salgariani: "La disperata" era la squadra, e il capomanipolo era "Yanez". Di sicuro Federica Salsi non è Rosa Luxemburg ma una di quelle donne che è bello incontrare e frequentare solo per scambiare battute sull'attualità o sulla moda o sui figli. E difatti pensava di poter dire la sua su quel piccolo mondo che è la politica italiana senza chiedere il permesso a Grillo o a Casaleggio o ai consiglieri comunali di Bologna - l'altro scientologo si chiama Marco Piazza - che l'hanno maltrattata. E ascoltate ancora come diventava accorato Bugani, un po' Atlante e un po' Giobbe, con il peso e le ferite del mondo addosso: "Ci sono momenti davvero dolorosissimi nella vita (e i fazzoletti grondavano pianto, ndr) in cui si deve osservare il mondo da un diverso punto di vista pagandone anche le conseguenze. Questo per è me uno di quei momenti". Stephen Zweig, che li chiamò Momenti Fatali, ne aveva contati 14: quattordici vite che riassumono il mondo. Bugani è il quindicesimo Momento Fatale. E forse il sedicesimo è Antonio Di Pietro mentre caccia Massimo Donadi, un altro reietto, reo di dissenso. Di Pietro, che nella sua lunga storia non ha mai nascosto la mano mentre lanciava le pietre, sta finendo in una filodrammatica dove ci sono tutte le parti in commedia, buffonesche e tragiche. E ora i suoi intellettuali organici fanno esercizi di filologia catastale, come neppure Bocchino ai tempi di Tulliani, precisando che le case sono 11 e non 56. E la loro contabilità al dettaglio distingue appartamenti e particelle, donazioni e "elargizioni modali", affitti e speculazioni, senza pensare che - come diceva Totò - "non è la somma che fa il totale", perché è il dettaglio che offende, è il dettaglio che si fa trave nell'occhio del moralista, nel cuore della confraternita. Comunque Di Pietro, che campa di televisione, non potrà mai entrare nella Scientology di Grillo. Ce lo spiega di nuovo il devotissimo Carneade Bugani, citando Pasolini: "Non c'è niente di più feroce della banalissima televisione". Così il grillismo da mediocrità dispettosa sta mutandosi in populismo velenoso. L'originaria comicità è diventata ferocia contro il dissenso. Scriveva Rimbaud: "... avverto la ferocia del sorriso idiota".

sabato 20 ottobre 2012

lettera interessante su Venezia

Ho appreso, con comprensibile stupore, che il geom. Bertoncello è stato riammesso all’esercizio della libera professione dal Consiglio dei Geometri. Il presidente della categoria, da voi intervistato, ha dichiarato che si tratta di un provvedimento temporaneo in attesa che il consiglio prenda le opportune misure disciplinari. Non entrando nel merito e nei tempi di tali procedure, ritengo e credo che il ruolo dei collegi professionali, difesi con forza e mantenuti in essere dall’ultimo decreto Monti, debba essere di Disciplina della Professione a favore della tutela del Cittadino e non certo di protezione della casta. Come residente nel delicato e prezioso centro storico di Venezia, leggo ed interpreto la notizia negativamente; i “furbetti”, cito un termine più volte utilizzato dalla stampa nella vicenda, non solo sono liberi, ma possono pure continuare, legalmente, a fare la professione. Che bell’esempio, ma soprattutto oltre al danno la beffa: sciocchi quei Cittadini Onesti che si rivolgono a Professionisti che non hanno agganci. Ma, caro Direttore, il Comune, l’Assessore all’Edilizia, i Funzionari, che subito dopo lo scandalo hanno manifestato con forza e vigore sdegno per l’accaduto, annunciando una rapida e strutturale riforma dell’impianto degli uffici SUER e SUAP ad oggi cos’hanno fatto? Le categorie professionali del comparto edilizia, le associazioni, i Collegi non si costituiscono parte civile a favore di un’onesta declinazione della professione e contro la possibilità di un’illecita concorrenza che danneggia la Committenza e svende pezzi di città ? Gli immobili, realizzati con procedure ritenute truffaldine dalla Magistratura, non vengono ritenuti degni d’interventi relativi all’annullamento della liceità edilizia impedendone così l’uso ? Ho atteso qualche giorno, ma alla notizia è seguito il silenzio. Non si lamentino più i Cittadini Veneziani se una loro pratica necessita di due anni per avere risposta, magari negativa o d’integrazione atti. A questo punto siamo tutti colpevoli, a cominciare da chi ha il potere ed il dovere di fare, ma non ne ha il coraggio.
Lettera firmata

Galateo della 2a vita (quella su Twitter)

Galateo della 2a vita (quella su Twitter)

giovedì 18 ottobre 2012

Traghetto a San Samuele?

Leggo l'articolo sul traghetto di San Samuele e rimango veramente sconcertata !.
E' proprio vero che chi più grida in questa città, più viene ascoltato
Hanno ragione i genitori che portano i bambini alla scuola Renier Michiel , che non possono usufruire del traghetto , ma hanno anche ragione i gondolieri che dicono che lo stazio non è a norma e non si prendono la responsabilità di aprire il servizio ( si tratta di bambini) .
Ma i controllori dove sono? I vigili che dovrebbero controllare e riferire all'assessore di riferimento , non hanno visto che il traghetto non funzionava? Ma l'assessore non ha il controllo costante delle situazioni che riguardano la mobilità in città?
Sarà presissimo dal tram , che ci sarà fornito da una ditta che come avevo previsto è fallita... ma i miseri traghetti?
L'ultimo servizio per i veneziani che hanno ormai i vaporetti intasati e ai quali resta solo il teletrasporto per muoversi in città , quelli li vogliamo controllare o no?
Resto in attesa di una risposta , sono fiduciosa anche se ho conosciuto uno che è morto aspettando

Matteo Renzi ? ah ah ah !

Dopo un pomeriggio al Palaplip di Mestre torno a casa con le idee un po' confuse... Anzi no ! Chiarissime!
Già, le cose he ha detto Matteo Renzi al Palaplip sono più o meno le stesse cose che Alessandro Danesin ha detto nell'intervista rilasciata l'altro ieri al vostro giornale.
Confusione di ideologie? No non credo , cose di normale buon senso:
Il giovane Renzi , bravissimo comunicatore, look perfetto, staff eccezionale , soldi molti da investire nella sua campagna elettorale per le primarie circondato come una vera star da fotografi e telecamere , non dice cose nuove, parla di speranza per il futuro, parla di donne, di asili nido, di anziani da rispettare, cose tutte condivisibilissime , ma non ho sentito una sola parola sul come .
Video di Crozza, quindi autoironico, video di Obama finale, un po' retorico , il ragazzo ha studiato molto le tecniche di comunicazione strappa continuamente applausi , è un vero incantatore ,un grande attraversatore di tematiche , ma veramente poco concreto , non ha detto una sillaba sulle risorse per risolvere i problemi di cui tanto parla.
Allora perchè tanto scalpore ? Nessuno di noi e talmente smaliziato da capire? No , siamo talmente stufi di vedere che ogni giorno c'è qualche politico inquisito che la normalità ci sorprende!
Perchè la normalità è diventata eccezionale, la nostra classe politica locale e nazionale , ha smarrito il buon senso!
Gli asili nido da fare, gli anziani da aiutare, gli investimenti da attirare per migliorare la qualità di vita di tutti i veneziani , la trasparenza e l'onestà .non sono né di destra né di sinistra,
Qui sta la questione , il buon senso e la buona amministrazione che dovrebbero essere la normalità , sono la novità , una grande tristezza mi assale !
Che dire, speriamo nei giovani e nelle donne ?
Potrebbe essere , partiti muovetevi e fate un' analisi seria della grave carestia che ha colpito il nostro territorio , mancano soldi , mancano idee, manca l'onestà , manca il buon senso!

martedì 2 ottobre 2012

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia in occasione della messa solenne per la festa di S. Michele (Duomo di Mestre, 29 settembre 2012)




S. E. Rev.ma Mons. FRANCESCO MORAGLIA ,

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia in occasione della messa solenne per la festa di S. Michele (Duomo di Mestre, 29 settembre 2012)




Messa solenne per la Festa di S. Michele Arcangelo

patrono di Mestre (Duomo S. Lorenzo, 29 settembre 2012)



Omelia del Patriarca Mons. Francesco Moraglia





-          Persona e buona vita della polis -







Gentili autorità, carissimi confratelli e tutti voi qui presenti,

desidero augurarvi sin d’ora una buona festa di S. Michele, patrono di questa città. E, all’inizio di questa celebrazione, permettetemi anche di salutare e ringraziare in modo particolare la Polizia di Stato - che festeggia il suo patrono - per il prezioso e importante servizio che, quotidianamente, svolge nelle nostre città e lungo le nostre strade.



La festa dell’arcangelo Michele, patrono di Mestre, conduce a riflettere sul bene che vince il male. Il nome Michele, infatti, significa: “Chi come Dio?”. Un richiamo, una testimonianza, un grido. Michele è guida intrepida degli angeli, una sorta di custode dei custodi, e la rivelazione cristiana avverte che gli angeli, sotto la guida di Michele, sono al servizio di Dio affinché la storia della salvezza si compia.



Il bene, però, non riguarda soltanto le singole persone. No, il bene innerva di sé le relazioni umane, il vivere comune. La società è, sempre più, chiamata ad essere il luogo del buon vivere. E pure qui non si dà neutralità: o le nostre città sono luoghi accoglienti e ospitali oppure diventano luoghi di competizione e antagonismo, poi di emarginazione e violenza.



  La nostra società è - ed è destinata ad essere sempre più - espressione della cultura della tecno-scienza; ne consegue che o sarà realmente a servizio dell’uomo o, sempre più, diventerà spazio disumano, perché tutto ciò che consente lo spiegamento di energie nuove - se tali energie non sono “umanizzate”, ossia poste a servizio dell’uomo - è destinato ad espropriarlo proprio di ciò che lo rende uomo.



Il potere, in sé, non è né un bene né un male: è l’uso che se ne fa che lo qualifica in senso positivo o negativo. La buona vita personale e sociale, - della polis - è inserire un riflesso del bene, del vero, del bello - che appartengono per antonomasia a Dio - nella quotidianità dell’uomo che, come ricorda san Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi, è “spirito, anima e corpo” (cfr. 1Ts 5,23).



La cultura della tecno-scienza si trova dinanzi un io umano sempre più destrutturato; in tale contesto, il progetto di una “polis virtuosa” che si proponga come fine il bene comune, ovvero il bene di tutti e di ciascuno, deve collocare, al centro di tutto, la persona umana.



 Il bene comune, ovviamente, riguarda tutto l’uomo e non solo lo sviluppo di una o di alcune sue dimensioni antropologiche perché l’uomo, appunto, è costituito di spirito, anima e corpo.  



Nell’epoca post-moderna siamo chiamati a guardare, con rinnovata attenzione, al bene comune per cui è necessario, innanzitutto, riconoscere la persona. Senza l’impegno per il bene comune non si può neppure iniziare a parlare della città. Il bene comune richiede, infatti, riconoscere la dignità della persona, iniziando dal bene per eccellenza, il diritto alla vita: tutelare la vita appena concepita - momento di massima fragilità - è assunzione di responsabilità verso se stesso e gli altri, verso la comune convivenza.



Il beato Giovanni XXIII, nella Pacem in terris, così s’esprime: “…l’attuazione del bene comune trova la sua indicazione di fondo nei diritti e nei doveri della persona. Per cui i compiti precipui dei poteri pubblici consistono soprattutto nel riconoscere, rispettare, comporre, tutelare e promuovere quei diritti; e nel contribuire, di conseguenza, a rendere più facile, l’adempimento dei rispettivi doveri. Tutelare l’intangibile campo dei diritti della persona umana e renderle agevole il compito dei suoi doveri vuol essere ufficio essenziale di ogni pubblico potere ” (Pacem in terris, n. 36).



Ne consegue che l’esercizio della democrazia non può ridursi all’aspetto formale, la conta dei voti: una maggioranza opposta a una minoranza, sulla base del puro conteggio numerico dei voti, non vuol dire ancora una reale e vera democrazia. Una reale democrazia si sostanzia di valori che la nutrono dandole un’anima; il formarsi di una maggioranza, frutto di puro consenso numerico, non dice ancora nulla sulla qualità della democrazia come sulla bontà di una legge. Soprattutto, non è ancora sufficiente per dire se siamo dinanzi ad una democrazia reale, fondata sul rispetto dei diritti della persona e sull’assunzione dei corrispondenti doveri.



In proposito è doveroso, qui, richiamare le condizioni per cui l’atto compiuto dai pubblici poteri riveste valore giuridico. Ancora la Pacem in terris afferma: …ogni atto dei poteri pubblici, che sia o implichi un misconoscimento o una violazione di quei diritti, è un atto contrastante con la loro stessa ragione di essere e rimane per ciò stesso destituito di ogni valore giuridico” (Pacem in terris, n. 36).

  

Il credente, e con lui ogni uomo di buona volontà, sa che, innanzi alle esigenze etiche fondamentali, non sono in gioco valori confessionali o scelte partitiche, ma l’essenza della moralità umana. Moralità umana che riguarda, proprio, il bene integrale della persona e, di conseguenza, il bene comune che, a sua volta, non può - non deve - prescindere dalla persona. Vi sono principi a servizio della persona che sono presupposti a una buona politica e a una democrazia che sia reale perché fondata su contenuti o, meglio, su valori.



Pensiamo, appunto, al diritto primario alla vita che va rispettata sempre, in ogni frangente - dal concepimento al  suo spegnersi naturale -, e la specificità e unicità della famiglia fondata sul matrimonio per ciò che di peculiare (i figli) è, sola, in grado di porre a servizio della società civile e del bene comune.



Consideriamo, ancora, la libertà religiosa e d’educazione, come la libertà dalle moderne forme di schiavitù; non si può, poi, tacere il diritto alla pace - nelle nostre città, nei nostri quartieri e a livello internazionale -, ripudiando la guerra come modo per risolvere i conflitti, e il diritto a un’economia e, prima ancora, a una finanza che sia a servizio della persona.

                                                                                                           

Il fondamento di questi diritti e di ogni altro è, appunto, la comune dignità della persona. Tali diritti inalienabili della persona fanno parte della missione affidata da Cristo alla sua Chiesa e costituiscono altrettanti capisaldi della dottrina sociale della Chiesa. Giovanni XXIII, nella Mater et magistra, ricorda che “la dottrina sociale cristiana è parte integrante della concezione cristiana della vita” (Mater et magistra, n. 206).



Oggi la situazione mondiale si caratterizza, rispetto agli anni Sessanta del secolo scorso, per la globalizzazione; per questo, ancor più di prima, si esige, a livello mondiale, un rinnovato impegno per tutelare i diritti della persona. Ci troviamo, in tal modo, dinanzi alla non facile questione di riconoscere un’autorità a servizio e tutela dei diritti umani, in grado d’opporsi alle crescenti forme d’arbitrio, discriminazione, ingiustizia.



Si apre, come ha rimarcato Benedetto XVI - a conclusione della Caritas in veritate -, una questione delicatissima che riguarda la persona che, appunto, nella società tecno-scientifica, rischia d’esser privata della sua dignità e trovarsi in balia di una razionalità “chiusa” nel fare, incapace di cogliere il senso e il valore delle cose.



Così, fra i possibili tipi di razionalità, siamo posti innanzi ad una alternativa: o la razionalità “chiusa” nell’immanenza o la razionalità “aperta” alla trascendenza. La prima contrasta e rende impossibile pensare come dal nulla si possa passare all’essere e dal caso al senso. E qui dovrebbero riflettere tutti, credenti e non credenti.



Benedetto XVI sottolinea continuamente il contesto nuovo in cui oggi si pone la questione dell’uomo (antropologia) nel delicato segmento di modernità che stiamo vivendo. Così il Santo Padre riprende il cammino iniziato da Paolo VI quando, nell’enciclica Populorum progressio, indica alla Chiesa la prospettiva mondiale come luogo in cui sempre più si sarebbe declinata la questione sociale.



Qui sottolineiamo il nesso tra antropologia e questione sociale, un nesso inscindibile, soprattutto oggi. In tale contesto culturale comprendiamo quanto sia urgente riscoprire il compito e il ruolo di una coscienza capace di analisi critica. Benedetto XVI così s’esprime: “…oggi … la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica, nel senso che essa implica il modo stesso non solo di concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell’uomo… qui l’assolutismo della tecnica trova la sua massima espressione. In tale tipo di cultura la coscienza è solo chiamata a prendere atto di una mera possibilità tecnica. Non si possono, tuttavia, minimizzare gli scenari inquietanti per il futuro dell’uomo… Dietro a questi scenari stanno posizioni culturali negatrici della dignità umana…” (Caritas in veritate, n.75).



Siamo oggi posti dinanzi a una alternativa di non poco conto: o l’uomo riuscirà ad affermare la sua dignità personale o sempre più dovrà fare i conti con lo strapotere della tecno-scienza che, progressivamente, lo esproprierà del suo essere “umano”. Educare alla buona vita del vangelo vuol dire accogliere la sfida della cultura del nostro tempo, affinché le relazioni umane siano sempre caratterizzate dal rispetto della dignità della persona.



Tali considerazioni interpellano certamente, e ogni giorno, anche la realtà di Mestre e di quest’area metropolitana significativa e centrale per l’intero Nordest dell’Italia. Non sarà, perciò, indifferente o irrilevante vedere come in questo territorio - in continua trasformazione, alla ricerca di un’identità più forte e riconosciuta, quotidianamente sollecitato anche dal confronto con l’ “altro” - si riuscirà a “tradurre”, insieme e concretamente, il primato della persona e il criterio del bene comune. L’auspicio è che le sofferenze di oggi - in particolare quelle del mondo del lavoro - possano trovare una degna soluzione e generare un futuro migliore per tutti.



L’Arcangelo Michele - col suo stesso nome: “Chi come Dio?” - pone anche a noi l’interrogativo fondamentale: la domanda su Dio, la domanda delle domande. Domanda a cui solo l’uomo - che è immagine di Dio - può dare risposta e dalla quale, poi, scende ogni ulteriore risposta circa la buona vita della persona e della comunità.



Con la sua intercessione e la sua preghiera, San Michele Arcangelo accompagni tutti in questo momento di crisi persistente, così difficile da superare per la nostra comunità.  


29/09/2012 S. E. Rev.ma Mons. FRANCESCO MORAGLIA

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