Il tema della fede si può ignorare ma non evitare.
Spesso, infatti, incrocia la strada persino di quelli che stanno andando
altrove. San Paolo, che pure di questo era ben consapevole, si stupiva ancora
leggendo e citando Isaia mentre scriveva ai Romani: «Isaia arriva fino a dire: Sono
stato trovato anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a
quelli che non mi invocavano» (10, 20). In piena rivoluzione sovietica, nel
1918, Aleksandr Blok componeva il poema I dodici e
nel diario era costretto ad annotare: «Quando l’ebbi finito, mi meravigliai io
stesso: perché mai Cristo? Davvero Cristo? Ma più il mio esame era attento, più
distintamente vedevo Cristo. Purtroppo Cristo. Purtroppo proprio Cristo!». In
questo Anno della fede vorremmo tentare - attraverso una serie di articoli,
simili a vere e proprie puntate tematiche - qualche sondaggio molto libero e
non sistematico nell’orizzonte dell’incredulità che, però, si incontra o si
scontra con la fede, reagendo nelle forme più diverse. All’amico Janouch, che lo interrogava su Cristo, Kafka rispondeva: «È
un abisso di luce, bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi». Lo
scrittore franco-rumeno Emile Cioran, che si dichiarava di «professione atea»,
confessava di continuare a spiare Dio e, disarmato, annotava: «Quando voi
ascoltate Bach, vedete nascere Dio. Dopo un oratorio, una cantata o una
Passione, Dio deve esistere. Pensare che tanti teologi e filosofi hanno
sprecato notti e giorni a cercare prove sull’esistenza di Dio, dimenticando la
sola!». L’esperienza di Paolo ci fa comprendere che la fede non è solo una
questione dell’uomo ma anche di Dio. È lui che si mette sulle vie dell’umanità
e si para innanzi alla sua creatura: sta alla persona, con la sua libertà,
fermarsi o scansarlo o ignorarlo. Emblematica è la scena folgorante
dell’Apocalisse (3, 20) ove Cristo sta alla porta e bussa. Se non passasse, noi
resteremmo chiusi nella stanza della nostra storia e della nostra razionalità.
Egli, però, interviene e tutta la storia della salvezza è proprio questo, cioè
il passaggio del «Dio di carne che non sta cacciato in alto, incagliato tra le
stelle», come scriveva il poeta russo Majakovskij nella sua raccolta lirica
150.000.000. Tuttavia è indispensabile in quella scenetta dell’Apocalisse,
un’altra componente: l’apertura della porta, ossia l’atto libero dell’uomo.
Grazia e fede sono un binomio inscindibile, perché noi non siamo stelle o
pietre o semplici bestie istintuali; in noi pulsa la libertà, la volontà, la
scelta. Solo dopo questo incontro tra noi e Lui, scatta l’intimità della
comunione: «io cenerò con Lui ed egli con me». Jean Cocteau nel suo Diario di
uno sconosciuto curiosamente invertiva uno schema naturale: «Prima trovare, poi
cercare». Questa è, appunto, la logica della fede, che assegna il primato alla
grazia (“trovare”), ma ribadisce la necessità della libertà (“cercare”). Per
questo, Bultmann aveva intitolato la sua raccolta di
saggi Credere e comprendere perché la fede non è frutto di un itinerario
meramente razionale, di un sillogismo stringente, di una dimostrazione
matematica. È il Credo ut intelligam,
il credere per capire di Agostino, seguito da Pascal secondo il quale «le cose
umane bisogna capirle per amarle; le cose divine bisogna amarle per capirle».
Nelle Lettere di Nicodemo lo scrittore polacco Jan Dobraczyński
osservava: «Vi sono misteri nei quali bisogna avere il coraggio di gettarsi per
toccare il fondo, come ci gettiamo nell’acqua, certi che essa si aprirà sotto
di noi. Non ti è mai parso che vi siano delle cose alle quali bisogna prima
credere per poterle capire?». L’immagine del mare in cui gettarsi - che Robert Musil nel suo Uomo senza qualità aveva adottato per parlare
della verità (un mare in cui procedere in ricerca) - è una delle simbologie più
frequenti applicate al percorso di fede, a partire da sant’Agostino con l’idea
delle diverse navigazioni necessarie alla conoscenza umana, razionale e
teologica. Uno dei più significativi filosofi del Novecento, Ludwig
Wittgenstein, definiva la religione come «il fondale marino più profondo e
calmo, che rimane tranquillo per quanto alte siano le onde in superficie». Già
il grande scrittore mistico cinquecentesco spagnolo Frey
Luis de León riconosceva che «in Dio si scoprono nuovi mari quanto più si
naviga». Se è lecita una testimonianza personale, dirò che, avendo approntato
in questo mese una mappa essenziale della fede cristiana, l’editore “laico” non
ha avuto esitazione nell’assegnarmi il titolo Guida ai naviganti, anche perché
io stesso nel tracciare narrativamente l’itinerario
del credere ricorrevo proprio a questa metafora. Un aforisma orientale, però,
va oltre mettendo in scena due uomini che s’addentrano «nel grande mare della
religione: uno ne uscì vivificato e trasformato, l’altro vi annegò». Aveva
ragione, pur nel suo scetticismo, il filosofo settecentesco inglese David Hume
quando dichiarava che «gli errori della filosofia sono sempre ridicoli, quelli
della religione sono sempre pericolosi». Il fondamentalismo radicale lo
insegna. Eppure la nostalgia dell’infinito è attaccata al cuore dell’uomo e la
necessità di immergersi e di navigare è insita all’anima e alla mente che cerca
di trascendere gli orizzonti limitati. Aveva, perciò, ragione anche un altro
autore tendenzialmente scettico come Anatole France
quando scriveva che «per compiere grandi passi, non dobbiamo solo agire ma
anche sognare, non basta pianificare, bisogna anche credere». In questo
infinito, che ci accoglie nel suo grembo, respira il mistero di Dio al punto
tale che un maestro indiano al discepolo che gli chiedeva di aiutarlo a trovare
Dio replicava che nessuno lo poteva guidare «per la stessa ragione per cui
nessuno può aiutare un pesce a trovare l’oceano». Certo è che non tutti si
azzardano in questa navigazione, né sono consapevoli delle onde dell’oceano che
pure battono sulla loro pelle, preoccupati come sono di tutelare i confini
della loro isola creaturale, finita e chiusa in se stessa (per usare un’altra
immagine del filosofo Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus). È questa la vera incredulità, cioè
l’indifferenza rispetto a ogni altro quesito che riguardi l’Oltre e l’Altro
trascendenti. Sartre nella sua opera Parole descrive la sua adolescenza con un
padre protestante, che muore quando egli ha due anni, mentre la madre cattolica
ripara dai nonni indifferenti. Alla fine confessa di essere stato condotto
all’incredulità «non dai conflitti dei dogmi, bensì dall’indifferenza dei miei
nonni». Anche la sua compagna, Simone de Beauvoir,
rievoca la sua giovinezza nelle Memorie di una ragazza perbene con una madre
devota e un padre indifferente. Alla fine la scelta è chiara: «Dio proibiva una
quantità di cose ma non esigeva niente di positivo, all’infuori di qualche
preghiera e di qualche pratica che non modificavano la vita». Simone abbandona,
così, la via religiosa, deformata da questa concezione così minimalista e
piccolo-borghese, espellendola dal suo orizzonte intellettuale ed esistenziale.
L’indifferentismo religioso è tendenzialmente il nome nuovo e più pericoloso
dell’ateismo nella società secolarizzata contemporanea. Esso era già delineato
da Cecilia, la protagonista della Noia di Alberto Moravia: «La religione è
noiosa, al convento ho sempre avuto impressione che le monache s’annoiassero
come si annoiano i preti e in genere tutti quelli che si occupano di religione.
Guardate mentre stanno in chiesa, vedrai che non ce n’è nessuno che non s’annoi
da morire». Dio non è combattuto ma ignorato; non è oggetto di contestazione ma
è considerato un tema insignificante, fastidioso e noioso. Spesso alla base c’è
l’equivoco che identifica tout court religiosità generica e fede autentica. La
pratica religiosa, infatti, di non pochi cristiani si rivela segnata da
ipocrisia, da compromessi morali, da un’adesione passiva alle tradizioni, da un
perbenismo etico, da interessi politici e così via. Ma questa, come insegna
Cristo, è piuttosto una malattia della religione. Eppure, unita al consumismo,
alla superficialità imperante, alla caduta della morale, questa patologia
genera in molti l’estinzione dell’interrogazione spirituale. Augusto Del Noce,
in un suo intervento al primo Meeting di Rimini poco prima della morte avvenuta
nel 1989, sottolineava che «un nuovo avversario del cristianesimo è cresciuto
negli ultimi decenni: la forma di religione propria della società opulenta e
consumistica. È un avversario più potente e pericoloso del comunismo ateo». In
questo orizzonte secolarizzato e spiritualmente grigio, vale la sarcastica
considerazione del poeta e cantautore Jacques Prévert:
«Dio, sorprendendo Adamo ed Eva, disse loro: Continuate, ve ne prego; non
disturbatevi per me. Fate come se io non esistessi!». Il suo nuovo “Padre
nostro” è, allora, questo: «Padre nostro che sei nei cieli, restaci!». Ecco,
allora, un interrogativo di base: nell’attuale cultura “debole” e “liquida” gli
interrogativi forti e solidi della teologia hanno ancora la possibilità di
risuonare? È la domanda che lo stesso cardinale Joseph Ratzinger poneva sul
tappeto nell’ormai famoso dialogo con Habermas:
«L’eliminazione graduale della religione, il suo superamento dev’essere considerato come un progresso necessario
dell’umanità, affinché essa giunga sulla strada della libertà e della
tolleranza universale?». L’impressione realistica - al di là delle molteplici
analisi condotte (si pensi a quella imponente offerta dal saggio L’età secolare
di Charles Taylor) - è che il “disincanto” e la “de-divinizzazione” (Entgötterung) operata dall’indifferenza religiosa tipica
della secolarizzazione abbiano creato non tanto un progresso liberatorio quanto
piuttosto un inaridimento morale ed esistenziale e uno svuotamento di senso. La
pur nobile fiducia nella tecnoscienza riesce a
evadere solo le domande sulla “scena” dell’essere e dell’esistere, non sul loro
“fondamento” e significato. Alla fine lo statuto di inerzia religiosa, che
abbiamo abbozzato e che pone problemi seri e complessi all’evangelizzazione,
alla pastorale e alla stessa cultura ecclesiale, può essere illustrato con la
suggestiva ripresa dell’episodio evangelico di Zaccheo
operata da Montale nella poesia intitolata appunto Come Zaccheo:
«Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro / per vedere il Signore se mai passi. /
Ahimé, non sono un rampicante ed anche / stando in
punta di piedi non l’ho visto». Fermiamoci per ora qui nel nostro viaggio
dedicato al confronto spesso dialettico tra fede e cultura. Altre tappe sono
possibili: ne selezioneremo in futuro alcune, nella consapevolezza che non sarà
facile percorrere tutti i sentieri e i meandri del credere, memori delle
battute del Faust di Goethe: «Chi oserà dire: Io credo in Dio? / Puoi domandare
a preti o a saggi / e la risposta sembrerà prendere in giro / chi ha fatto la
domanda (I, 3426-30)».
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