lunedì 17 dicembre 2012
Oltre l’indifferenza di Pierangelo Sequeri Questo tempo per vedere i frutti dell’avidità, di cose e di sé
Che dobbiamo fare?», dice la folla. La domanda è
rivolta a Giovanni il Battista, e siamo all’inizio di tutto. Giovanni percorre
l’intera regione del Giordano, restituendo vita a un’antica parola di Dio:
«Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore, raddrizzate i
suoi sentieri». La parola viene dal libro di Isaia. La vita ce la mette
Giovanni: «Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira imminente?
Fate dunque opere di conversione». (E non mi venite a dire che siete figli di
Abramo e avete già dato. Incominciate da voi stessi). Quanto alla domanda, che
in molti gli rivolgono, la risposta di Giovanni è molto concreta: chi ha il
doppio di tutto, può campare benissimo anche con la metà; e chi ha potere sugli
altri si accontenti del giusto, senza estorcere niente a nessuno. In altre
parole, non siate ingordi di beni, non abusate del potere. Per il resto, Colui
che deve venire, aprirà il vostro cuore con Spirito santo e fuoco: e saprete
davvero chi siete e che cosa valete. Non è poi così enigmatico e fumoso, questo
ammonimento, vero? Volessimo riassumerlo, per la nostra condizione odierna,
potremmo dire così. La prima mossa, per sgomberare il terreno al Signore che
viene, è questa: mettere risolutamente fuori gioco l’avidità. Deve essere un
soprassalto collettivo, una conversione della mente, uno scatto di orgoglio.
Domandiamoci tutti insieme: che razza di stile di vita è mai il nostro? Figli
di Abramo, figli di Kant, figli di Mazzini o di chi
volete voi: ma adesso, che cosa siamo diventati? Non meno di un moto collettivo
di pura dignità ci è necessario, ormai. Ci siamo troppo intorpiditi,
sottovalutando il pericolo. Fino all’istupidimento. L’avidità è un virus che
lavora sottotraccia, ramifica nel sangue e nel cuore: sperpera beni che possono
benissimo essere condivisi, genera conflitto e abuso di potere, diffonde
arroganza e insegna a trattare male tutti. Non te ne accorgi, e a un certo
momento cresce l’assuefazione a ringhiarsi addosso, a
sbeffeggiare gli onesti, a diffidare tutti, a essere indifferenti a tutti.
Ecco, a quel punto, l’avidità ha fatto il suo lavoro di erosione: si incrinano
i pilastri, cedono i ponti. L’assuefazione all’avidità (anche in chi non ci
guadagna niente) ha abbassato la soglia di allerta, ha liberalizzato la soglia
della decenza, ha imparato a giustificarsi come un diritto. Infine, si insedia
come uno scopo. Nella scena evangelica seguente, arriva la rivelazione che ci è
necessaria. Subito dopo il battesimo di Giovanni, Gesù entra nella sinagoga di Nazaret, riceve il rotolo del profeta Isaia – sempre lui –
e trova un altro passo. «Lo Spirito del Signore è su di me; per questo mi ha
consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto
messaggio». I segni? Sono segni di guarigione dal male, di liberazione dalla
schiavitù, di restituzione della speranza. Sono i segni dello Spirito al
lavoro. E del fuoco che riscalda l’umana convivenza, ridestando speranza per il
suo riscatto, capace di un calore che Dio soltanto può infondere. È la pars construens, il lato costruttivo che ci mancava. Il vangelo
di Gesù rilancia, non si accontenta del pareggio. Colmati i fossati, spianati
gli ostacoli, deve rientrare in circolazione la passione di non lasciare
indietro nessuno, l’entusiasmo di riaggregare i dispersi e gli smarriti, la
gioia di dividere le cose buone, i pensieri migliori, i fondamentali
dell’umano, i legami che ci sostengono l’anima. L’effetto implacabile
dell’avidità, infatti, è l’indifferenza. Può sembrare, all’inizio, che
l’avidità accenda il desiderio. Lo ammazza invece. L’avidità trasforma la città
in un formicaio impazzito. L’indifferenza desertifica l’anima. Come già
l’avidità, anche l’indifferenza, ora, sta cercando di accreditarsi ai piani
nobili (si fa per dire) della coscienza collettiva. L’indifferenza ha il ciglio
asciutto e razionale, non si aspetta più niente da Dio (e neppure dagli
uomini). È agnostica, nella sua versione elegante, anche verso la moralità
condivisa. Istruisce l’individuo emancipato a pensare semplicemente a se
stesso, come fosse una superiore forma di modestia intellettuale (lo è, in
effetti, ma in un altro senso). L’indifferente non pretende di essere sostegno
per nessuno, e coltiva l’ambizione di essersi fatto esclusivamente da sé (a
parole). Questa perfetta indifferenza a Dio e al prossimo non è autonomia. L’indifferentismo
è parassitismo. Non c’è che Dio, in Spirito e fuoco, che possa illuminarci e
riscaldarci al riguardo. Il Signore viene, e ce lo spiega: con parole e segni
inequivocabili. Se questa volta lo lasciamo arrivare fino al cuore, ci
sentiremo come liberati da un brutto sogno. Impareremo anche a commuoverci e a
sorriderci, dalla voglia che avremo di ricominciare insieme.
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