martedì 31 luglio 2012

Bruno Forte : il bene comune


Il Sole 24 Ore

28 novembre 2010

Cari politici, ricordate il bene comune come principio ispirativo del vostro agire

di Bruno Forte


È possibile parlare ancora oggi del "bene comune" come principio ispirativo fondamentale dell'agire politico? Se si guarda agli scenari e ai protagonisti della politica italiana di questi ultimi tempi, si sarebbe tentati di dire di no. La gente comune sente distante il dibattito politico, non concentrato sui problemi reali delle famiglie: lavoro, salute, casa, giovani, scuola, sanità, anziani. Intere aree del paese aspettano dal potere centrale un'attenzione che non c'è, non solo le aree tradizionalmente segnate da problemi irrisolti, come il Mezzogiorno, ma anche quelle provate da recenti traumi, come le alluvioni in Veneto, restate ai margini dell'agenda politica.
Società liquida
C'è chi - per sostenere l'inattualità del tema "bene comune" - invoca la "società liquida" postmoderna, dove tutti hanno il proprio modo di comprendere il bene, spesso in antitesi ad altre visioni: è questo che renderebbe impossibile individuare mete condivise, per cui ci si dovrebbe accontentare di regole minime per garantire la reciproca tolleranza, rinunciando a ogni interesse per il "bene comune". C'è chi, constatando la sproporzione fra le energie spese a proporre e sostenere leggi che riguardano pochi e quelle destinate ai problemi che riguardano tutti, conclude che siamo ormai nel tempo in cui la legge del più forte ha soppiantato la forza della legge, lasciando libero campo al potente di turno perché tuteli e promuova i propri interessi, anche a scapito di quelli dei più.
La coincidenza di questa stagione politica con il 150° anniversario dell'Unità d'Italia non sembra aver gran che risvegliato la passione per il "bene comune", nonostante i pur alti e ripetuti richiami del massimo garante dell'unità nazionale, il presidente della Repubblica. Alcuni comportamenti privati di uomini politici, poi, segnati da un'impressionante decadenza etica, confermano la lontananza vistosa fra agire politico e tensione morale. Il "bene comune" appare disatteso, irrilevante: ne deriva una diffusa sensazione di disgusto verso gli scenari della politica, che in alcuni diventa tentazione di disimpegno e di qualunquismo, in altri perfino di rivolta. Una considerazione fatta molti anni fa da Corrado Alvaro può essere utile per reagire a un simile quadro: «La tentazione più sottile che possa impadronirsi di una società è quella di pensare che vivere rettamente sia inutile».
Lo stimolo della Chiesa
Per ritrovare il senso e la passione del "vivere rettamente" mi sembra necessario tornare alla forza ispiratrice e critica del "bene comune": è questo lo stimolo che la Chiesa ha il dovere di offrire. Il Concilio Vaticano II aveva definito il "bene comune" come «l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono, sia alle collettività che ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente» (Gaudium et spes, n. 26). Il servizio del "bene comune" implica, dunque, la responsabilità e l'impegno per la realizzazione piena di tutti e di ciascuno come condizione fondamentale dell'agire politico. Questo è possibile solo se il "bene comune" non è la semplice risultante della spartizione dei beni disponibili, ma una meta che trascende ciascuno con la sua esigenza morale e proprio così ci accomuna.
Avere a cuore la promozione e la tutela della vita di tutti; servire la crescita di tutto l'uomo in ogni uomo, mettendo al centro la dignità di ogni persona umana, quale che sia la sua condizione, la sua storia, la sua provenienza e la sua cultura; obbedire alla verità, sempre: questo è impegnarsi per il "bene comune". Sarebbe, però, sbagliata l'idea che il "bene comune" sia definito nelle sue forme concrete una volta per tutte, senza discernere il senso che esso assume nella complessità delle situazioni storiche: «La costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare» (Benedetto XVI, Deus Caritas est, n. 28). L'impegno per il "bene comune" è allora piuttosto uno stile di vita, un agire caratterizzato da alcune scelte di fondo, da richiedere a chi sia impegnato o voglia impegnarsi in politica, augurandoci che la riforma dell'attuale sistema elettorale torni a dare ai cittadini la facoltà di scegliere le persone di cui fidarsi. Riassumerei queste scelte in cinque indicazioni, che mi sembrano indispensabili per chi voglia servire il "bene comune".
In primo luogo, l'impegno per l'etica pubblica e la morale sociale deve essere indissociabile dall'impegno etico sul piano personale: va rifiutata la logica della maschera, che coniughi "vizi privati e pubbliche virtù". Questo comporta il riconoscimento del primato della coscienza nell'agire politico e il diritto di ciascun rappresentante del popolo all'obiezione di coscienza su questioni eticamente rilevanti, ma vuol dire anche che la credibilità del politico andrà misurata sulla sobrietà del suo stile di vita, sulla generosità e costanza nell'impegno, sulla fedeltà effettiva ai valori proclamati (ad esempio a proposito dell'istituto familiare).
In secondo luogo, nel rapporto con i cittadini il politico dovrà seguire la massima formulata così da don Lorenzo Milani e dai ragazzi della sua scuola di Barbiana: «Appartenere alla massa e possedere la parola». Il politico dovrà essere vicino alla gente, ascoltarne i problemi, farsi voce delle istanze di giustizia di chi non ha voce e sostenerle. I politici non siano al servizio del padrone di turno, ma del popolo. Nell'impegno in vista del "bene comune" i poveri, i senza parola, i socialmente deboli siano considerati come riferimenti cui è dovuto ascolto e rispetto: lo "stato sociale", l'istruzione e la tutela della salute per tutti, non sono una conquista opinabile, ma valori irrinunciabili, da tutelare e migliorare liberandoli da sprechi e assistenzialismi che non servono ai poveri.
In terzo luogo, la dialettica politica andrà sempre subordinata alla ricerca delle convergenze possibili per lavorare insieme al servizio del "bene comune": corresponsabilità, dialogo e partecipazione vanno anteposti a contrapposizioni preconcette o a logiche ispirate a interessi personali o di gruppo. Il "bene comune" va sempre preferito al proprio guadagno o a quello della propria parte politica.
Gradualità delle mete
In quarto luogo, nel servizio al "bene comune" occorrerà saper accettare la gradualità necessaria al conseguimento delle mete: la logica populista del "tutto e subito" ha spesso motivato promesse non mantenute, quando non la violenza e l'insuccesso di cause anche giuste. Occorre puntare al fine con perseveranza e rigore, senza cedere a compromessi morali e ritardi ingiustificati e senza mai ricorrere a mezzi iniqui. Ogni scelta fatta in vista del "bene comune" non va misurata sulla sola efficacia immediata, ma soprattutto sulla sua valenza e il ruolo educativo al servizio di tutti. Così, in particolare, l'impegno per i valori fondamentali della tutela della vita umana in tutte le sue fasi, della promozione della famiglia, della giustizia per tutti, del rifiuto della guerra e della violenza in ogni forma e dell'impegno per la pace.
Infine, chi intenda operare per il "bene comune" deve considerare come scopo del suo servizio il bene di tutti, anche degli avversari politici, che perciò non vanno mai considerati come nemici o concorrenti da eliminare, ma come garanzia di confronto critico in vista del discernimento delle vie migliori per giungere alla realizzazione della dignità personale di ciascuno.
Questo insieme di regole minime si riassume in un appello ai protagonisti della politica, particolarmente urgente in questa fase di crisi: occorre un sussulto morale, che dia a tutti, specialmente ai giovani, ragioni di vita e di speranza! La scelta è fra una deriva egoistica e lesionista e, appunto, il "bene comune", il bene che - superando ciascun appetito individuale - libera e unisce tutti. La posta in gioco non è il guadagno di alcuni, ma il futuro che costruiremo insieme. Ci saranno politici pronti a rispondere oggi all'appello per un simile ritorno al primato del "bene comune"?

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28 novembre 2010
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martedì 24 luglio 2012

Sognare statisti di Marina Corradi Chi pensa alla “classe del 2020”?

A Mosca, Mario Monti ha citato De Gasperi: «Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni». Pochi giorni dopo la nomina, il premier prestato alla politica aveva detto la stessa cosa: in sostanza, che per molti anni in Italia si è governato pensando al consenso elettorale, e trascurando scelte impopolari ma necessarie. E chi, non addetto ai lavori, ascoltava, si era chiesto come è possibile governare per il bene di un Paese se ci si fa guidare dai sondaggi del consenso come dalla vera bussola. Allora la libertà di un tecnico che non intende ricandidarsi sarebbe una parentesi di buon senso nella corrente della demagogia? Mario Monti ambisce a restare nella memoria degli italiani come uno statista, e una buona parte di noi, pure nell’affanno di questi mesi, si augura che così sia; come quando un aereo incontra una tempesta e sobbalza ai vuoti d’aria, e i passeggeri si augurano cordialmente che il pilota ci sappia fare. Ma non è di Monti che vorremmo parlare. Invece, di quel dilemma indicato da De Gasperi, che divide la politica rivolta solo alle urne dal progetto lungimirante, di ampio respiro, teso alle generazioni che verranno. Categoria davvero poco appetibile, questa, in termini di ritorno elettorale: non solo le future generazioni non votano, ma spesso non sono neanche ancora al mondo. Non votano, i nostri figli e nipoti classe 2020, non nati ma che potrebbero forse nascere con delle politiche familiari meno miopi. Pensare a fermare il calo demografico dunque è cosa da statista; e il fatto che da tempo invece ben pochi sembrino preoccuparsene, fa mal pensare. Quanti statisti abbiamo avuto, dalla fine della Prima Repubblica? Con il metro dell’aforisma di De Gasperi, si direbbe, pochi. Abbiamo avuto invece innumerevoli politici. Naturalmente, comprensibilmente, preoccupati di farsi rieleggere. Ma l’impressione è che il tornaconto elettorale per buona parte della classe dirigente della Seconda Repubblica sia diventato il pensiero fondante; l’unico sopravvissuto, nella morìa di ideali e ideologie della fine degli anni 90. Con inquietudine noi, profani dei Palazzi, leggiamo i sondaggi che con frequenza nevrotica valutano gli umori degli italiani. Che i più siano sfavorevoli all’aumento dell’età della pensione, beh, lo si poteva immaginare. Che ogni categoria sfiorata da una liberalizzazione insorga, anche. Ma c’è qualcosa che più della sbarretta del consenso in quei grafici dovrebbe interessare chi governa: l’idea di un bene comune, più grande di quello di ciascuna delle parti. Utopia? Eppure la storia testimonia che ci sono stati, tempi in cui a Roma si sono preoccupati di alfabetizzare gli italiani, o di garantire cure mediche a tutti. Qualcuno ha pure gettato le fondamenta, di questo Paese. E ora? È un contagio della febbre mediatica dell’audience, questa ossessione di misurare il gradimento e correggere di conseguenza la rotta? L’altro giorno il filosofo Pietro Barcellona, ci diceva della sua Sicilia: «Qui è venuta a mancare totalmente una classe dirigente». Solo in Sicilia, professore? – volevamo chiedergli. La fine delle ideologie del Novecento ci ha lasciato una politica fedelmente devota al suo successo. Agli interessi di parte da soddisfare, per averne un tangibile ritorno. Al vento delle mode del politicamente corretto, da accarezzare. Che in una crisi come questa un partito come il Pd si laceri attorno alla questione dei matrimoni gay, avrebbe lasciato attoniti i vecchi compagni di un tempo. Non è forse il vento di un facile consenso radical , che, si pensa, gonfierà le vele di chi lo favorisca? Resta però un dubbio: se davvero questo sguardo di limitato orizzonte rispecchi le aspirazioni degli elettori. Se veramente, come profetizzò Pasolini, nel Dopoguerra la televisione sia passata «come un trattore sulla coscienza degli italiani»; lasciandoci impoveriti e storditi, dimentichi del senso del vivere insieme. Tutti? Girando per l’Italia fra quartieri e scuole e oratori e ospedali si ha la sensazione che esista, un’Italia che merita un’altra politica. Che vorrebbe ritrovare un respiro ampio, un fiato lungo, che vorrebbe continuare la sua storia. E speri in qualcuno che ci creda, che ci scommetta. Estinti, i De Gasperi? Sognare uno statista; uno che pensi ai figli che non ci sono ancora.

Mara Carfagna ,Vodafone Angel : un aiuto per le donne

Questa mattina alla Camera ho partecipato alla presentazione ufficiale di Vodafone Angel: un progetto realizzato dalla Fondazione Vodafone Italia che ha come obiettivo quello di attivare, in Italia, un servizio di supporto e soccorso per le donne a rischio di violenze, che si basi sulla tecnologia Vodafone.

La fase di sperimentazione è in corso a Roma e ha visto la collaborazione della Questura di Roma e di organizzazioni no profit che operano da anni nel settore; sono state coinvolte 33 donne ad alto rischio di violenza, alle quali è stato dato in consegna un cellulare dotato di una tecnologia realizzata da Vodafone, che consente di richiedere, tramite un semplice pulsante, supporto nel momento in cui se ne ha necessità (24h su 24h). Una volta premuto l’apposito tasto, automaticamente parte la richiesta al centro antiviolenza che rileva la chiamata, identifica la vittima attraverso il terminale e, se possibile, comunica con lei fornendole supporto psicologico e assistenza, oppure va in ascolto ambientale, visualizza la posizione geografica grazie al GPS e, in caso di imminente pericolo per la donna, passa la segnalazione con le informazioni alla Questura, che invia una volante sul posto.

Il progetto prevede, in un secondo momento, un’estensione territoriale del servizio su altre città italiane, in collaborazione con la Polizia di Stato e con altre Istituzioni. L’obiettivo della Fondazione Vodafone, infatti, è quello di far rientrare sotto Vodafone Angel, entro il prossimo anno, circa 2.000 donne in Italia, attualmente identificate come ad alto rischio di morte per violenza.

giovedì 19 luglio 2012

Quell’idea da Unione Sovietica non funziona neppure per il Pil di Leonardo Becchetti

Pare che alcuni esperti del governo abbiano trovato la killer application, l’idea risolutiva per sconfiggere la crisi. Si tratta di un’invenzione geniale di stampo sovietico che ogni tanto, da ultimo in questi giorni, riemerge come un fiume carsico. Se il Prodotto interno non cresce togliamo un po’ di ferie e ponti per aumentare le giornate di lavoro. Il principio è semplice. Prendiamo la torta della ricchezza creata in un anno nel Paese (il Pil appunto) e dividiamola per i giorni di lavoro. Troveremo che ogni giorno di lavoro produce una bella fetta. Se riduciamo le ferie creando nuovi giorni di lavoro avremo delle fette aggiuntive. La trovata ricorda l’economia pianificata dell’Urss dove il successo dell’economia si misurava sulla base dei volumi di produzione e il modello era Stakanov, l’operaio che divenne mitico estraendo 102 tonnellate di carbone in 6 ore. Il problema della recessione nell’economia moderna, infatti, in questa fase almeno è tutto dal lato della domanda e non da quello dell’offerta. Non cresciamo poco perché lavoriamo troppe poche ore non riuscendo a soddisfare una domanda che c’è, bensì perché non c’è abbastanza domanda per quello che vorremmo produrre. Ovvero la produttività non è scarsa perché non produciamo abbastanza manufatti ma perché non ci sono abbastanza richieste per quelli che produciamo tanto da costringerci ad un utilizzo parziale dei nostri macchinari e della nostra capacità produttiva. È ciò che testimoniano due fotografie tipiche delle recessioni: i concessionari pieni di auto nuove invendute e le grandi aziende costrette a cassa integrazione o contratti di solidarietà (dove tutti lavorano alcune ore in meno) per evitare licenziamenti di massa. Pensate agli effetti della beffa di questa trovata di alcuni esperti governativi: più giorni di lavoro per produrre più automobili nella catena di montaggio ingolfando in maniera ancora maggiore i concessionari. Più ore di lavoro che si tramutano immediatamente nelle grandi aziende che hanno troppi addetti in un aumento delle ore di solidarietà. Per non parlare delle ripercussioni negative di un taglio delle festività sul settore turistico, che rappresenta una quota fondamentale del nostro sistema produttivo. Come il premio Nobel Stiglitz ha cercato di spiegare il più semplicemente possibile la crisi è un problema di domanda (sempre più tramortita dai tagli alla spesa che non possiamo usare per ridurre le tasse ma siamo costretti ad utilizzare per pagare gli interessi usurari della speculazione) ed è il frutto delle diseguaglianze crescenti di un sistema economico devastato da un oligarchia finanziaria anglosassone fuori controllo. Se firmiamo un assegno di un milione di euro ad un super ricco solo una piccola parte di quei soldi si trasformeranno in consumi mentre se lo stesso milione di euro lo usiamo per ridurre le tasse dei ceti più poveri tutti quei soldi verranno utilizzati per consumi essenziali con effetti molto maggiori per la domanda. Non è un caso pertanto che la letteratura scientifica non trovi alcuna correlazione negativa tra giorni di ferie e crescita. Al contrario risultati econometrici recenti dimostrano, analizzando un campione di 182 Paesi, che un giorno in più di ferie aumenta il Pil dello 0,3 per cento (Amavilah, 2009). Risultati analoghi e più significativi sono documentati da Ramasany (2008) che sottolinea come l’effetto positivo si determina attraverso un aumento dei consumi. Risultato confermato dalla reintroduzione di quattro giorni di festa in Cina nel 2007, che ha prodotto un aumento delle vendite tra il 15 e il 17 per cento. Certo si può sempre pensare che il genio italico trovi un’idea innovativa brillante in quel primo maggio vissuto al lavoro e non al riposo. Sappiamo però che la regola d’oro delle politiche di gestione del personale nelle grandi aziende multinazionali è di costringere le persone a prendersi le ferie per evitare stress da superlavoro e problemi psicologici. E la nostra cultura e tradizione ci dice che il riposo è un momento fondamentale per ricaricare energie ed idee, per vivere e gustare la nostra vita di relazioni. Ma non vogliamo mettere in campo una valutazione sulla base di concezioni di benessere più evolute o su temi etico-sociali. La trovata sovietica di abolire numerosi giorni di festa o di ferie è prima di tutto una pessima idea anche soltanto dal punto di vista del Pil.

Cristiani nel Nordest


Leggo con interesse l'indagine pubblicata dal Gazzettino riguardante la fiducia in calo verso Ratzinger nel Nordest e devo dire che la cosa non mi stupisce più di tanto , visto che è in calo la fiducia anche verso i partiti e le ideologie .
Il paragone può sembrare azzardato , ma la gente oggi è stufa di ogni tipo di autorità, politica , ma anche religiosa. La gente comune non arriva alla seconda settimana e quindi non ha molto tempo da dedicare al pensiero e alla cultura .
D' altra parte la caduta delle ideologie e il diffondersi del “ pensiero liquido” , non hanno certo aiutato le giovani generazioni a farsi delle idee proprie o quantomeno a costrure magari una nuova etica che non sia relativistica , ma che dia una sorta di codice etico valido per tutti .
Mi stupisce invece non poco la posizione del prof Francesco Vian … Sono ben poche le chiese dove si celebra la Messa in latino e se lo si fa la scelta è della comunità che isieme decide su questa modalità .
Fermo restando che grazie a Dio , c'è stato un convegno delle chiese del nordest ad Aquileia che ha mostrato quanto ancora i cristiani siano tanti, pieni di voglia di collaborare in tutti i campi per migliorare il nostro paese e quanto siano vicini al nostro territorio ( la capillarità delle parrocchia permette veramente una diffusione profonda della solidarietà).
Ne è uscita una immagine di Chiesa attenta ai poveri, solidale, accogliente e piena di persone che lavorano e che vogliono impegnarsi anche in ambiti civili perchè si ritorni ad uno stato dove la persona e il suo benessere siano il centro di ogni azione sociale e politica .
Non vorrei dire delle banalità, è vero forse dobbiamo implementare nuove forme di comunicazione come Chiesa , ma la centralità del Cristo risorto che perdona coloro che lo hanno ucciso , credo che veramente possa essere anche un modello per chi non crede .
I valori come l'accoglienza, l'onestà, la sobrietà e l'amore per tutti, sono convinta possano essere condivisi anche da una società laica , perchè sono convenienti per tutti e rendono l'uomo veramente libero .
Quindi faccio un appello a tutte le persone di buona volontà, vediamo in questa crisi una risorsa che ci permette di riscoprire valori che erano stati sepolti sotto gli strati polverosi del consumismo e dell'individualismo e lavoriamo per migliorare insieme il nostro paese, cominciando dalle piccole cose .
Chiediamoci non cosa fa lo stato per me, ma cosa posso fare io per migliorare la qualità della vita di tutti .
Anna Brondino

lunedì 16 luglio 2012

pensierino serale

La vita ci dà sempre la guida di cui abbiamo bisogno”, diceva la maestra zen Charlotte Joko Beck. “Compresi ogni zanzara, ogni disgrazia, ogni semaforo rosso, ogni ingorgo stradale, ogni superiore (o subalterno) insopportabile, ogni malattia, ogni perdita, ogni momento di gioia o di tristezza, ogni dipendenza, ogni rifiuto, ogni respiro”

martedì 10 luglio 2012

IMU a Venezia


l l'articolo 42 della costituzione si dice”la proprietà privata è riconosciuta e garantita , dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti


Ecco noi crediamo che per gli italiani non ci sia niente di più importante della propria casa, comprata magari con i sacrifici di tutta una vita.
Noi non pensiamo che, visto il periodo di grossa crisi socioeconomica che sta passando il nostro paese, non sia più possibile usare la proprietà immobiliare come una fonte inesauribile di risorse.
Quando il nostro comune crede di usare l'IMU come la sciabola applicando in molti casi sia l'aliquota dello 0,76 %, fino ad arrivare 1,06%, facendo solo dei grossi scaglioni, sbaglia di grosso!
Bisogna pensare ad una tassazione comunale degli immobili cucita addosso ai vari casi sociali che si possono presentare.
Come non pensare innanzi tutto ad usare questa leva fiscale per incentivare la residenzialità nella nostra città abbassando l'aliquota a chi affitta a residenti per periodi lunghi?
Come non pensare a chi con i risparmi di una vita ha comprato per investimento una casa e la concede magari ad un figlio in comodato d'uso e si vede applicare una aliquota del 0,76%, o la concede ad un fratello e si vede applicare un’aliquota del 1,06%?
Dobbiamo considerare che la nostra città è popolata da molti anziani che magari sono in casa di riposo e posseggono ancora la casa dove magari abita un parente che li ha accuditi per lungo tempo. Questa è la loro unica casa e così va considerata e va applicata l'aliquota ad es. dello 0,2%, come concede la legge.
Che dire poi dei poliziotti che per servizio devono trasferire la loro residenza in città dove sono di stanza? La casa dove abita la loro famiglia è la loro unica casa, e così va considerata, il loro stipendio è già esiguo per il prezioso servizio che fanno alla collettività, non vessiamoli con una tassazione iniqua.
Ultimo, ma non meno importante, pensiamo ai negozi di vicinato che si stanno trasformando tutti in negozi di maschere e vetro cinese. Perché non pensare ad un' aliquota agevolata per chi affitta a conduttori che aprano negozi alimentari o di servizi per la città e da contratto si impegnino per un lasso di tempo lungo a non cedere a certa merceologia spazzatura? Insomma un premio per conduttori e locatori che si impegnino in un patto etico per la città?
Insomma in una città che ha il vantaggio di un Casinò, che ha le entrate di una tassa di soggiorno e di una ZTL, dove l'addizionale comunale IRPEF è la più alta in assoluto delle città del Veneto, crediamo che la tassazione degli immobili vada primariamente controllata e secondariamente cucita addosso a misura delle esigenze di quei pochi coraggiosi che hanno deciso di rimanere in città.
Insomma nel nostro territorio comunale va fatta una seria politica di tagli, di riduzione di consulenze e di clientele, che oramai da trent'anni di un governo monocolore si sono incrostate, è una questione di equità sociale e di una corretta redistribuzione delle risorse che dovrebbero essere incameraste con una tassazione equa.
Anna Brondino
per il coordinamento Pdl del comune di Venezia


Contro la crisi la rivincita della carità di Bruno Forte

La trasformazione del pianeta in “villaggio globale”, accelerata dall’esperienza della realtà virtuale consentita dall’universo multimediale e dal “web”, incide anche sulla sfera religiosa e spirituale. Fenomeni come il New Age o Era dell’Acquario, dall’impatto vastissimo soprattutto nella cultura nord- e sud-americana sembrano rispondere al bisogno di rassicurazione prodotto dall’accelerazione dei cambiamenti attraverso una sorta di “gnosi” per il popolo, in cui le sub-culture prodotte dalla dipendenza mediatica trovano garanzie psicologiche e consolazioni a buon mercato, convenienti alle finalità delle grandi agenzie di consenso economico e politico del pianeta. Ecco perché diventa urgente individuare come il cristianesimo – nella varietà dei contesti e delle sue tradizioni confessionali e specialmente nella pienezza della sua espressione cattolica – debba contribuire a costruire in rapporto ad esse un’umanità più giusta e felice, più unita e conforme al progetto divino di salvezza. Tre ambiti di impegno si lasciano riconoscere come ineludibili per tutte le Chiese e per il loro cammino comune: la risposta da dare al nuovo bisogno di spiritualità, l’urgenza emergente della cattolicità e l’impegno al servizio della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato. Si può dire che la riflessione della fede del terzo millennio si giocherà intorno alla martyrìa, alla koinonìa e alla diakonìa, vissute dai cristiani. La via della martyrìa corrisponde a una ritrovata esigenza di spiritualità emersa dalla parabola dell’epoca moderna: c’è bisogno di una teologia più teologica, più collegata al vissuto spirituale. La modernità aveva separato, se non addirittura contrapposto, il momento razionale e il momento esperienziale della vita, producendo quel divorzio fra riflessione e spiritualità, che aveva reso anche la teologia piuttosto arida e intellettualistica e la spiritualità piuttosto sentimentale e intimistica. L’epoca post-moderna spinge a saldare nuovamente questi due ambiti: l’alternativa della fede all’astrattezza dell’ideologia sta nella possibilità di sperimentare un rapporto personale con la Verità, nutrito di ascolto e dialogo con il Dio vivo. La Verità non è qualcosa che si possiede, ma Qualcuno dal quale lasciarsi possedere. Secondo la critica di moda negli anni dell’ideologia rampante, la dimensione contemplativa della vita sembra offrirsi come riserva di integralità umana e di autentica socialità. Si può quindi supporre che il futuro del cristianesimo o sarà più spirituale e mistico, e ricco di esperienze del Mistero divino, o potrà ben poco contribuire alla crisi e al cambiamento in atto nel mondo. La ricerca di un nuovo consenso intorno alle evidenze etiche domanda ai cristiani una risposta a partire dalla testimonianza specifica della loro fede nel Dio di Gesù Cristo, anche per evitare il rischio non indifferente di “riduzione al minimo comun denominatore”, che sembra emergere in alcuni approcci interreligiosi alla questione etica. Accanto alla via della martyrìa, quella della koinonìa corrisponde alla nostalgia di unità che si affaccia nella “globalizzazione” del pianeta. In particolare, in Europa – culla delle divisioni fra i cristiani – la disgregazione seguita al crollo del muro di Berlino e l’emergere violento di regionalismi e nazionalismi sfidano le Chiese a porsi come segno e strumento di riconciliazione fra loro e al servizio dei loro popoli. Sul piano teologico è significativo che la riflessione ecumenica, dopo aver dedicato una privilegiata attenzione alle forme sacramentali, si concentri sul tema della koinonìa, che esprime non solo un’esigenza di ripensamento ecclesiologico riguardo alla struttura e alla vita interna delle Chiese, ma anche un’attenzione alla sfida che il bisogno di unità emergente dalle nuove divisioni pone alle comunità cristiane. Emerge una nuova, diffusa attenzione alla “cattolicità”, intesa sia secondo il suo significato di universalismo geografico, reso più che mai attuale proprio dai processi di “globalizzazione” del pianeta, sia secondo il senso di pienezza e totalità, che rimanda all’integralità della fede e della attualizzazione della memoria del Cristo. Non sorprende allora che in ambito ecumenico si dedichi nuova attenzione all’unità universale nella Chiesa. Un contributo notevole alla riscoperta della cattolicità, come esigenza e condizione della missione cristiana, viene da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI: il loro pontificato, caratterizzato da un’itineranza apostolica, ha evidenziato la ricchezza della “regionalizzazione” della Chiesa e ha ribadito le esigenze dell’unità dottrinale e pastorale sul piano universale. La rilevanza di quest’azione è stata palese in alcuni cambiamenti storico-politici, come quello della crisi del “socialismo reale”, ma va considerata soprattutto nella sua specificità spirituale di riproposizione del Vangelo come messaggio di vita e salvezza per le singole situazioni culturali e per la crescita nell’unità e nella pace della famiglia umana. La prima decade del Terzo Millennio indica questa direzione proponendola come un itinerario di conversione e rinnovamento per tutti i credenti, chiamati a far memoria dei doni di Dio, ma anche a riconoscere le proprie colpe, personali e collettive, e a ripensare la propria identità e missione di fronte alle sfide del nuovo millennio cristiano, specialmente in chiave ecumenica e nell’ottica del dialogo interreligioso. Una teologia ecclesialmente responsabile e aperta alle esigenze della cattolicità sembra più che mai necessaria. Infine, la testimonianza evangelica della carità come diakonìa, nell’impegno per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato, appare come il terzo grande campo di azione per il cristianesimo degli inizi del Terzo Millennio in tutte le sue espressioni confessionali: le sfide della giustizia sociale sono oggi interconnesse con i rapporti internazionali di dipendenza e con la questione ecologica. Lo stretto intreccio appare con grande chiarezza quando si considerino i processi in atto nella “globalizzazione”, superando visuali regionalistiche, a volte troppo chiuse: il cristianesimo, religione universale diffusa nei contesti storici e culturali più diversi, appare qui soggetto privilegiato per tener desta una coscienza critica attenta a difendere la qualità della vita per tutti e capace di farsi voce specialmente di chi non ha voce e fronteggiare, con un impatto morale e spirituale di grande portata, le logiche esclusive ed egoistiche delle grandi agenzie mondiali di potere economico e politico. Di fronte alla crisi mondiale e all’avidità da cui essa è stata generata la testimonianza del primato della carità è una sfida e una promessa. I credenti devono contare solo sulla vitalità della loro fede e l’operosità evangelica: tuttavia, il patrimonio spirituale che si esprime nella vastissima rete di opere di volontariato e di solidarietà che la Chiesa ha espresso con creatività, anche nel nostro tempo di mutamenti rapidi e spesso drammatici, costituisce al tempo stesso un contributo e una proposta all’umanità intera per l’edificazione di un “villaggio globale” che sia più a misura umana. È significativo che la Chiesa sia intervenuta in termini inequivoci con l’Enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate sull’attuale forma in cui si presenta la questione sociale. I cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni del secolo richiedono però a tutte le Chiese di far propria la denuncia del sistema di dipendenze che regge i rapporti specialmente fra il Nord e il Sud del mondo. A tutti è domandato di contribuire a individuare una via economico-politica che superi le rigidità del collettivismo e dei suoi fallimenti storici, e gli egoismi miopi di un capitalismo assolutista e accentratore. Una teologia “militante” nel servizio della carità e della ricerca di una più grande giustizia appare qui come compito e sfida ineludibile.

Nuova Balena bianca, il sogno impossibile di un partito cattolico di Andrea Tornielli

La nuova «balena bianca» vedrà davvero la luce o è destinata rimanere solo un sogno? Le associazioni che in ottobre si sono riunite a Todi daranno vita a una iniziativa politica o avrà avuto ragione chi, come Ernesto Galli della Loggia, ha parlato di «irrilevanza dei cattolici»? Un appuntamento da tener d’occhio è il convegno che si terrà a Roma il 20 luglio, organizzato dalla Fondazione Pastore della CISL, dalla Fondazione De Gasperi di Franco Frattini, dalla Fondazione Liberal di Ferdinando Adornato e dalla rivista «Il Domani d’Italia» del parlamentare PD Giuseppe Fioroni, insieme ad esponenti del Forum delle associazioni cristiane del mondo del lavoro e dell’UDC. «Non credo che ci sarà la nascita di un nuovo partito cattolico o la rinascita della DC – spiega a La Stampa il ministro Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio e storico della Chiesa – vedo piuttosto la “condensazione” dei cattolici in alcuni settori degli attuali schieramenti, nell’alleanza dei moderati ma anche nel centrosinistra. Questo comunque non significa essere irrilevanti». Sul nuovo movimento politico Riccardi preferisce non esprimersi: «Ci avviciniamo ormai alla fase pre-elettorale, non vedo progetti chiari, bisognava muoversi prima». Raffaele Bonanni, segretario della CISL, indicato come uno dei possibili leader della nuova formazione politica, chiarisce: «Nessuno vuole un partito cattolico, perché sarebbe uguale agli altri partiti. Dobbiamo prima preoccuparci di riannodare i fili tra politica e cittadini: c’è bisogno di tanta pre-politica, tanta iniziativa sociale, tanta sussidiarietà». «Solo così – aggiunge Bonanni – può sorgere una nuova classe dirigente. Bisogna ripartire dall’idea che le comunità si risollevano con la responsabilità di ciascuno». Il leader della CISL in realtà non esclude che possano nascere nuovi movimenti «per fare incontrare realtà culturali diverse ma compatibili tra di loro, senza cercare a uomini della Provvidenza o a salvatori della Patria». Il più esposto per il nuovo partito è Carlo Costalli, presidente dell’MCL, che pensa a una formazione «moderata e riformista, nell’ambito del Partito popolare europeo. Un movimento politico non confessionale, aperto, dove cattolici e laici possano collaborare e che abbia come bussola la dottrina sociale della Chiesa». È convinto anche Giorgio Guerrini, presidente di Confartigianato: «Noi lavoriamo per formare un soggetto politico capace di aggregare più culture che si uniscano per cercare di risolvere i problemi complessi del Paese. I cattolici – aggiunge – hanno sempre dato un contributo determinante nei momenti più difficili e quello che viviamo, anche se c’è ancora chi non lo capisce, è uno di questi. C’è un popolo che vuole impegnarsi ed essere rappresentato…». Insiste sulla necessità di continuare l’opera iniziata da Mario Monti il presidente di Confcooperative Luigi Marino. «C’è bisogno di nuove offerte politiche e i cattolici devono dare il loro contributo. Purtroppo siamo ancora bloccati dagli egoismi. Ritengo utile – spiega Marino – dar vita a un nuovo movimento politico che sia anche cattolico, liberale e sociale. Non certo confessionale». Marino lo immagina come «un raggruppamento per la modernizzazione del Paese, che mescoli culture diverse ma con un ruolo importante per quella cattolica e che si impegni a proseguire la linea di Monti, dando però più respiro alla crescita». Tiepida verso l’iniziativa è invece la posizione di Andrea Olivero, presidente delle ACLI, l’associazione che ha sempre visto i suoi ex leader impegnarsi nel centrosinistra. «Noi sproniamo a partecipare, l’offerta politica attuale va ripensata. Esiste una disponibilità del mondo cattolico per rinnovare la politica e questo vale sia per eventuali nuovi contenitori, sia per i partiti già esistenti». Per Olivero «il nostro compito è quello di mettere in campo le risorse che ci sono ed essere esigenti su valori e programmi, senza prestarci a operazioni di maquillage o a fare da stampella a qualcuno. Come cattolici abbiamo l’ambizione di riformare il sistema politico, come ACLI la responsabilità di rinnovare il cattolicesimo democratico che ha esaurito la sua spinta propulsiva». Tra i tiepidi c’è anche la Compagnia delle Opere guidata da Bernard Scholz. Politici legati a CL sono presenti nel Popolo della libertà. Maurizio Lupi ritiene che «un partito cattolico sia superato e antistorico, nel PDL c’è già l’idea dell’incontro tra laici e cattolici. Se invece il tema è quello di aggregare una coalizione più ampia nel solco del Partito popolare europeo, possiamo cercare di farla, ma vedo grandi resistenze. Ci sono cattolici che sono già oggi protagonisti, dovremmo cercare di aggregare e non frammentare ulteriormente». Chi si è esposto di più in favore del nuovo movimento politico, attende le mosse del leader dell’UDC Pierferdinando Casini, che boccia l’idea del partito cattolico («non l’ha fatto neanche De Gasperi») ma ribadisce la necessità di un «risveglio dei cattolici in politica, nell’ambito di una sintesi tra credenti e non credenti». Anche Casini non esclude affatto la nascita di nuovi soggetti politici: «Io stesso opero perché si possa andare alle elezioni con una forza liberaldemocratica aperta alla società civile. Come UDC siamo disponibili a trasformarci, essere il seme di qualcosa di più ampio, ancorato nella grande potenzialità del cattolicesimo italiano ma che guardi anche oltre esso». Non sarà comunque il Forum a progettare il partito, né lo faranno le singole associazioni. Se qualcosa nascerà lo si saprà ufficialmente a fine anno, quando anche alcuni ministri potranno schierarsi senza creare problemi al governo Monti: tra gli interessati ci sarebbero Corrado Passera, Lorenzo Ornaghi, Mario Catania, Anna Maria Cancellieri. La nuova «balena bianca» vedrà la luce? E dove si collocherà? Il cantiere è aperto: c’è chi spera, chi è scettico, chi gufa e chi attende di sapere se i cattolici continueranno a essere «irrilevanti».

giovedì 5 luglio 2012

I dieci fattori di rischio degli aggressori di donne



I comportamenti, le caratteristiche e i precedenti che aumentano la probabilità di un aumento della violenza da parte di chi maltratta:
1. Episodi pregressi di gravi violenze fisiche o sessuali (anche su altre donne: il maltrattante non è violento perché la vittima lo provoca, ma a prescindere: quasi sempre smette di perseguitare una donna solo perché «passa» a un’altra)
2. Minacce pesanti di violenza e morte, intimidazione nei confronti dei figli, lanci di oggetti durante i litigi
3. Escalation: nell’arco della relazione c’è stato un crescere della frequenza e intensità della violenza (anche se inframmezzata da momenti strumentali di riappacificazione, con lui che chiede scusa e lei che perdona). Se c’è stato un aggravarsi i maltrattamenti, è probabile che ci sarà ancora di più al momento della separazione. Per questo, se una donna decide di lasciare, è meglio farlo di nascosto
4. Precedente violazione di provvedimenti di polizia già emessi (ammonimento, sospensione della potestà e allontanamento). Questo fattore permette di valutare se le misure sono efficaci nella gestione del rischio oppure no e quindi se ne servono di più severe.
5. Atteggiamenti che giustificano o condonano la violenza (a livello culturale o religioso): se l’uomo minimizza, è molto geloso e possessivo, dà la colpa alla vittima, significa che non vuole riconoscere il disvalore giuridico o sociale della violenza.
6. Precedenti penali specifici o no (questo fattore «pesa» molto di più se ci sono reati contro la persona, per rissa, aggressione o simili)
7. Se i due partner si sono lasciati, o si stanno lasciando. È il momento in cui il pericolo aumenta di più. Ancora più a rischio sono le situazioni in cui i partner si sono lasciati e rimessi insieme. Il «tornare indietro» indebolisce molto la donna agli occhi del maltrattante: l’uomo vede che insistendo con le varie strategie (moine o violenze) riesce a ottenere quello che vuole.
8. Se chi maltratta fa abuso di sostanze, alcol o droga: abbassano la soglia di controllo e fanno delegare a uno stato di alterazione la gestione delle proprie emozioni
9. Disoccupazione o grave stato economico (non dovuto a cause di forza maggiore), scarsa attitudine a cercare a mantenere un lavoro, difficoltà ad avere a che fare con il denaro (gioco d’azzardo, vita al di sopra delle proprie possibilità)
10. Disturbi mentali, anche quelli come il disturbo di personalità o bipolare che giuridicamente non condizionano la capacità di intendere o di volere.

Uccise dai partner: è possibile prevenire? I segnali di rischio

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