mercoledì 20 marzo 2013

A proposito di Fontego dei Tedeschi ...

In un momento storico in cui la crisi del comparto edilizio nella sola Venezia insulare interessa circa 700 piccole e medie aziende del comparto casa, coinvolgendo quindi quasi 2000 addetti, manifestandosi con una riduzione dei fatturati media che si attesta tra il 15 e 20% con un raddoppio delle sofferenze, ogni nuovo cantiere che sorgerà nella nostra città sarà senza dubbio una preziosa risorsa.
Venezia, vetrina internazionale, è potenzialmente capace di attirare investitori da qualsiasi luogo per l’ovvio ritorno di immagine garantito; è anche vero però che qualsiasi investimento richiede tempi e norme certe.
Quindi burocrazia, norma contraddittorie, enti con regolamenti tra loro contrastanti e un certo intellettualismo sospettoso e sterile, non aiutano certo lo sviluppo di opportunità che potrebbero ridistribuire equamente ricchezza in tutto il territorio generando posti di lavoro, recuperando spazi abbandonati a se stessi e germinando semi di cultura sociale.
Il Fontego da questo punto di vista potrebbe essere paradigmatico; si tratta infatti di una delle ultime opportunità che la nostra città deve sfruttare al meglio sia dal punto di vista economico, ma anche etico e sociale. Errori senza dubbio ne sono stati commessi da ambo le parti: una maggiore partecipata progettazione con la città avrebbe forse garantito una condivisione, invece di creare fratture e avrebbe potuto dar luogo a sinergie produttive positive per molte realtà della città. Per un altro verso un amministrazione maggiormente coesa e sensibile alle necessità del territorio avrebbe, supportata da associazioni e comitati mossi da concrete motivazioni e non ideologizzate, potuto dare un servizio ed un’immagine degne di una pubblica dirigenza in grado di saper ben gestire ed attrarre le risorse e le energie di cui questa città ha estremamente bisogno.
Quattrocento posti di lavoro e tutto l’indotto che questo investimento sarà capace di attrarre non sono certo trascurabili per la futura economia di Venezia, insomma un contenitore che salvaguardi non solo l’aspetto commerciale dell’investimento, ma che consenta attività culturali e sociali al momento nel centro storico non esiste.
Una realtà che probabilmente ridistribuirà nel territorio i flussi turistici, che al momento gravitano per lo più solo nella area marciana, consentendo di rivitalizzare al contempo una zona caratterizzata da uffici.
Forse, dopo il voto del Consiglio Comunale, un approccio meno ideologizzato da parte di tutti potrà far tesoro di questo martoriato processo decisionale consentendo di attirare in un prossimo futuro nuovi investitori che possano mettere al centro dei loro progetti il nostro territorio e le necessità sociali e culturali delle persone che lo abitano .

martedì 19 marzo 2013

Era uscito ad Aquileia .....

Case aperte ai disoccupati, meno salotti, più periferie. Il nuovo stile dei Vescovi di Francesco Chiamulera
La Chiesa veneta / 1: chi rinuncia al segretario, chi all’auto. “Anche i preti rivedano il tenore di vita”. La Chiesa nell’era di papa Francesco

Venezia - «Pronto, parlo con la Curia di Rovigo? Mi può passare Sua Eccellenza?». «Sono io. Mi scusi se non ho risposto prima, ma nelle ultime due ore ero in giro per la diocesi, a visitare alcune parrocchie, e sono rientrato solo ora». Che cosa si può chiedere, in tema di sobrietà francescana, a un vescovo che risponde al telefono della curia perché non si preoccupa di avere filtri, e si muove nel territorio della propria diocesi con una piccola automobile, che per giunta guida da solo perché non vuole alcun autista? Monsignor Lucio Soravito, vescovo di Adria-Rovigo, ha salutato con gioia l'elezione di papa Francesco e i suoi primi, suggestivi gesti simbolici, ma in fondo si può dire che ne abbia sempre condiviso lo spirito e lo stile. «Ho una macchina vecchia nove anni, che mi ha regalato la diocesi al momento del mio insediamento», spiega. «Ho avuto un segretario, ma con il calo delle vocazioni c'è bisogno di preti sul territorio e quindi gli ho chiesto di andare, mi arrangio da solo. Anche nella cura pastorale delle chiese del territorio». Un nuovo fermento agita i vescovi veneti in questi giorni così evocativi, dove i segnali di rinnovamento che vengono da Roma («voglio una Chiesa povera», ha detto Francesco, il che - si fa notare - va ben oltre la «Chiesa dei poveri») trovano immediato riscontro nelle omelie e nei discorsi di queste ore dei prelati. «Il papa ci sta dando l'esempio», ha detto ai fedeli Giuseppe Zenti, vescovo di Verona. «Sono gesti significativi, dalla rinuncia all'auto papale fino al semplice crocifisso di ferro. Siamo chiamati a rivedere tutti noi il nostro tenore di vita, anche i preti e le diocesi». Un nuovo corso che, in terra veneta, si è cominciato a intravedere fin dalla nomina a patriarca di Francesco Moraglia, un anno fa. Il nuovo capo dei vescovi triveneti ha impostato la Chiesa sotto l'aspetto di un maggiore rigore anche contabile, non solo per quanto riguarda la diocesi di Venezia, ma con effetti su tutto il Nordest. Ha dato incarico a don Dino Pistolato, non a caso direttore della Caritas di Venezia, di farsi nuovo amministratore finanziario della diocesi, con un'imponente revisione delle spese della Curia. Uomo molto sobrio anche sul piano dei costumi personali, Moraglia una volta insediatosi ha subito ceduto la vettura ammiraglia in uso prima al patriarcato, preferendole una semplice utilitaria. Incontra gli operari disoccupati, gira per le fabbriche di Marghera. E' noto che la Chiesa del Triveneto, insieme con quella milanese, è la più potente d'Italia. Non solo per quanto attiene al patrimonio immobiliare, ma anche in termini di collette: i milioni raccolti superano di alcune distanze persino la diocesi di Roma. E proprio un diverso utilizzo delle risorse di cui la Chiesa dispone è stato uno dei temi-cardine del secondo sinodo delle chiese del Nordest, l'anno scorso. Ad Aquileia, a distanza di vent'anni dalla prima riunione, che diede l'avvio ai primi esperimenti di televisioni diocesane ed era molto centrata sul tema della comunicazione e della mediatizzazione del messaggio religioso, il clero nordestino ha parlato di argomenti diversi, a cominciare da un differente utilizzo dei beni immobiliari. Da donare, liquidare, in alcuni casi, o da mettere a beneficio dei più poveri, dei malati, dei bisognosi. A Vicenza, per esempio, ci hanno già pensato. Sotto la guida del vescovo Beniamino Pizziol (che è stato vicario di Scola quando era patriarca) monasteri e conventi occupati da decenni da ordini che erano ridotti all'osso numericamente, o da prelati anziani, stanno venendo riconvertiti per altri utilizzi, prevalentemente a carattere sociale. E' di poche settimane fa la notizia che uno di questi edifici è stato destinato ad alloggio per i padri separati o disoccupati, «che da figure rispettate spesso passano a veri e propri esclusi sociali», fanno notare alla Caritas locale. Così, mentre le curie completavano la vendita proprio di una di quelle emittenti (Telechiara) nate vent'anni soprattutto sotto la spinta della diocesi di Padova, fa e ora «non più economicamente sostenibili», in questi giorni un vescovo veneto ha staccato un assegno a diversi zeri per l'acquisto di... coperte per i poveri. Nello stile di Francesco: senza dirlo ai media, con semplicità e soprattutto discrezione. «Ho potuto constatare il grande entusiasmo dei miei diocesani per l'elezione di Francesco» commenta Giuseppe Andrich, vescovo di Belluno-Feltre». «Umiltà e la semplicità, anche nel modo di vestire, ma senza esibizioni, con naturalezza, questo deve essere lo stile anche per noi». Nelle Dolomiti il paragone più ovvio che circola è quello con Albino Luciani, Giovanni Paolo I, di Canale d'Agordo, anch'egli fautore, come Francesco, di una Chiesa più povera, più francescana, fin dal motto scelto, «humiltas». Andrich è molto esplicito nell'individuare il percorso da intraprendere e non risparmia qualche stoccata: «si parla di una Chiesa più aperta, ma essere aperti non vuol dire solo frequentare i grandi intellettuali, ma stare vicino alla gente, agli emarginati, agli ultimi». Come dire: cari confratelli nell'episcopato, meno salotti, più periferie. I vescovi del Nordest, trapela in queste ore, non sono stati a guardare nemmeno durante il conclave che ha eletto il nuovo Papa, quando alcuni di essi si sarebbero mossi - dalla distanza, ovviamente - per sostenere la candidatura di Bergoglio, nelle stesse ore in cui le previsioni davano l'ex patriarca Angelo Scola. «Avete vissuto con rammarico che non sia stato scelto un italiano, o un veneto? «A Roma, la Chiesa non è né italiana, né romana, ma universale...», taglia corto Andrich. «E poi», sorride, «ben tre Papi del Novecento venivano dal Patriarcato di Venezia. Possiamo accontentarci».

venerdì 15 marzo 2013

I tre movimenti della vita: camminare, edificare, confessare di Jorge Mario Bergoglio L’omelia del Papa

Ieri pomeriggio, alle 17, nella Cappella Sistina, papa Francesco ha celebrato la Santa Messa «pro Ecclesia» (per la Chiesa) con i cardinali elettori che hanno partecipato al Conclave. Nel corso della celebrazione eucaristica, dopo la proclamazione del Vangelo, commentando le letture (Isaia 2, 2-5; Pietro 2, 4-9; Matteo 16, 13-19), papa Francesco ha tenuto l'omelia che pubblichiamo di seguito.

In queste tre Letture vedo che c'è qualcosa di comune: è il movimento. Nella Prima Lettura il movimento nel cammino; nella Seconda Lettura, il movimento nell'edificazione della Chiesa; nella terza, nel Vangelo, il movimento nella confessione. Camminare, edificare, confessare. Camminare. «Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore» (Is 2,5). Questa è la prima cosa che Dio ha detto ad Abramo: Cammina nella mia presenza e sii irreprensibile. Camminare: la nostra vita è un cammino e quando ci fermiamo, la cosa non va. Camminare sempre, in presenza del Signore, alla luce del Signore, cercando di vivere con quella irreprensibilità che Dio chiedeva ad Abramo, nella sua promessa. Edificare. Edificare la Chiesa. Si parla di pietre: le pietre hanno consistenza; ma pietre vive, pietre unte dallo Spirito Santo. Edificare la Chiesa, la Sposa di Cristo, su quella pietra angolare che è lo stesso Signore. Ecco un altro movimento della nostra vita: edificare. Terzo, confessare. Noi possiamo camminare quanto vogliamo, noi possiamo edificare tante cose, ma se non confessiamo Gesù Cristo, la cosa non va. Diventeremo una Ong assistenziale, ma non la Chiesa, Sposa del Signore. Quando non si cammina, ci si ferma. Quando non si edifica sulle pietre, cosa succede? Succede quello che succede ai bambini sulla spiaggia quando fanno dei palazzi di sabbia, tutto viene giù, è senza consistenza. Quando non si confessa Gesù Cristo, mi sovviene la frase di Léon Bloy: «Chi non prega il Signore, prega il diavolo». Quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio. Camminare, edificare-costruire, confessare. Ma la cosa non è così facile, perché nel camminare, nel costruire, nel confessare, a volte ci sono scosse, ci sono movimenti che non sono proprio movimenti del cammino: sono movimenti che ci tirano indietro. Questo Vangelo prosegue con una situazione speciale. Lo stesso Pietro che ha confessato Gesù Cristo, gli dice: Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo. Io ti seguo, ma non parliamo di Croce. Questo non c'entra. Ti seguo con altre possibilità, senza la Croce. Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore. Io vorrei che tutti, dopo questi giorni di grazia, avessimo il coraggio, proprio il coraggio, di camminare in presenza del Signore, con la Croce del Signore; di edificare la Chiesa sul sangue del Signore, che è versato sulla Croce; e di confessare l'unica gloria: Cristo Crocifisso. E così la Chiesa andrà avanti. Io auguro a tutti noi che lo Spirito Santo, per la preghiera della Madonna, nostra Madre, ci conceda questa grazia: camminare, edificare, confessare Gesù Cristo Crocifisso. Così sia.

venerdì 8 marzo 2013

Caro 8 marzo....

Caro 8 marzo,
ti conosco da tantissimi anni e, siccome sei un amico e ti voglio bene, vorrei dirti alcune cose che mi stanno a cuore.
Anche quest'anno ci incontreremo, ma ho paura che questa volta molte cose siano cambiate, non credo proprio più tu ti bebba agghindare con chili di mimose e vestiti elegantissimi da concerto o da conferenza, i tempi sono cambiati e la crisi sociale ed economica incombe sulla nostra testa come un cappello da funerale .
Vorrei tanto che quest'anno tu ti vestissi in maniera semplice, sobria ed economica.
Vorrei che i soldi che tu spendi per fiori, conferenze, feste, concerti, li spendessi per educare al rispetto personale, per far capire agli italiani (tutti, anche i politici) che ogni cittadino del nostro paese deve essere ascoltato, accolto ed aiutato a realizzare le sue aspirazioni .
Insomma meno chiacchere e più azioni concrete, ma sopprattutto non solo delimitate al nostro incontro annuale .
Non siamo in un bel periodo, come ti ho già detto, molte donne sono uccise o subiscono violenza dai loro compagni e tante famiglie non arrivano alla fine del mese, ma questo deve darci la possibilità di riscoprire vecchi valori come il rispetto per la storia di tutti , la solidarietà e la sobrietà, valori che le donne e gli uomini d'Italia potrebbero cercare di insegnare ai loro figli ogni giorno,
Anche qui a Venezia la nostra amministrazione sembra sia incapace di capire che il tuo incontrarti non debba restringersi al poco tempo che ci concedi, ti prego cerca di far loro capire che la tua sobrietà è un valore a cui devono seguire pochissime parole, ma moltissime azioni concrete
Un abbraccio
Anna Brondino

martedì 5 marzo 2013

Caro Olmi, la Chiesa si fa insieme di Pierangelo Sequeri Il cristianesimo appare smarrito e svuotato, ma la nuda fede non è mai mancata all’appello, nei momenti cruciali. Nessuno può addomesticare il Vangelo

Caro Olmi (mi permetta, con stima, di chiamarla così, dopo aver letto il suo intervento ieri su 'Repubblica' intitolato 'Cara Chiesa, ti scrivo', tratto dal libro Lettera a una Chiesa che ha dimenticato Gesù, edito da Piemme; anche se lungi da me la pretesa di parlare come se fossi la Chiesa, alla quale lei confidenzialmente si rivolge), ok, il prezzo è giusto. Le ferite sono gravi. La tentazione di unirsi al coro è comprensibile. Il momento ha la sua indiscutibile soglia critica e il sentimento ha i suoi diritti (lei sicuramente sa bene 'chi' ci ha appena aperto il varco decisivo, per questo sentimento di purificazione profonda ed epocale). È dunque l’ora del sentimento, e anche, fatalmente, del risentimento. L’invocazione e la recriminazione hanno ragioni che in molti punti si sovrappongono, persino, a buon diritto, fra gli stessi credenti. Non è di questo che vorrei parlare. Né ho intenzione di intrattenermi con lei su questioni di teologia alle quali Lei allude en passant (non è questo che ci accomuna). Parliamo pure di affetti. E di ragioni degli affetti, se ce ne sono ancora: struggenti e accorati quanto si vuole, ma pur sempre affetti. Mi consenta perciò di condividere un paio di riflessioni, in certo modo anche molto personali. Un grande teologo (protestante), Karl Barth, per molti versi affine e amico del grande teologo Hans Urs von Balthasar (entrambi fra i 'padri nobili' della cultura teologica del Novecento, molto amati da Joseph Ratzinger), mi ha inchiodato, nei miei anni giovanili, a una terribile provocazione. Nel suo celebre commento della Lettera ai Romani, Barth ha scritto che se uno guarda le cose dal di fuori - senza cognizione della forza crocifissa del Vangelo, senza affetti per la vulnerabile fragilità del testimone - è impossibile negare che il Grande Inquisitore e il Poverello d’Assisi appartengano, a tutti gli effetti, alla storia del cristianesimo. Entrambi parlano del Signore, entrambi pretendono di difendere il vero cristianesimo. Eppure, il miracolo del cristianesimo è che il secondo c’è sempre. E sempre impedisce, pur fra mille ostacoli, che il primo requisisca la storia del cristianesimo. Solo nei romanzi e nei film accade questo. Nella realtà, il Grande Inquisitore non può addomesticare il Vangelo, che rimane visibile a tutti e lo giudica implacabilmente. Il Grande Inquisitore non può requisire la tradizione della buona testimonianza, che impone di confessare la fede come fede, e il peccato come peccato. Senza confusione possibile. I Vangeli stessi possono permettersi di dire a chiare lettere, fin dal racconto fondatore, che Giuda reclamava per lo spreco di profumo versato su Gesù da una peccatrice, perché teneva la cassa e rubava. Giuda appartiene certamente, 'da duemila anni', alla storia del cristianesimo. Ma certissimamente, 'da duemila' anni, non è Giuda che fa la storia del cristianesimo. Persino al di fuori della fede, non si potrebbe raccontare il cristianesimo in questo modo. E come prende e riprende ogni volta la sua forza, questa 'verità' indistruttibile del cristianesimo di chiesa? Non c’è che un modo. Le passioni e le affezioni di coloro che, in ogni secolo, 'fecero l’impresa': senza chiamarsi fuori, come piccoli o grandi inquisitori del grembo che ha nutrito le loro passioni migliori (compreso lo sdegno per il tradimento). I loro eredi sono tutti coloro che nella Chiesa, in alto e in basso, non vanno a ingrossare le fila degli svagati ed eccitati spettatori 'in attesa del naufragio'. Il momento presente ha lusingato larghe falde dell’intellighenzia mediatica, reticente e codarda nei confronti dell’umanesimo smarrito e nichilista che il narcisismo­senza-dio ha inflitto all’epoca, con l’idea di accordarsi per maramaldeggiare su un cristianesimo che appare smarrito e svuotato. Un lavoro per mosche cocchiere, che non rischiano nulla. Un lavoro che mira a includere anche Dio fra le passioni tristi dell’epoca. L’oppio dell’irreligione renderà più sopportabile il nichilismo della ragione? Sono sicuro che lei, caro Olmi, stia da tutt’altra parte, a questo riguardo. Perciò mi permetto di condividere la sua passione, chiedendole di mutare segno al suo appello. Non glielo propongo per onere di mandato ecclesiastico. Le propongo di condividere il senso che il suo appello riceve nelle parole di una signora fine e gentile, madre di quattro figli che sono stati cresciuti nell’identica passione intelligente per il Vangelo. Una persona che, come moltissimi, crede che la ferita non è la Chiesa che ha tradito il Vangelo, ma gli ecclesiastici che hanno tradito la Chiesa. «Nel momento in cui il giornalismo mostra tutta la sua stoltezza - mi ha scritto - e i nostri figli ci urlano 'Ma che cos’è la Chiesa?', 'Che cosa vuol dire che siamo cattolici?', ci mancano parole. E quelle del catechismo non bastano. La parola e la passione di tutti i saggi che si sono dedicati alla Parola di Dio ci servono. E ci servono adesso». Questa nuda fede non è mai mancata all’appello, nei momenti cruciali, 'da duemila anni'. Il problema è quanto siamo disposti a desiderarla e a farla desiderare. Lo dobbiamo fare per i figli che arrivano, almeno, se non per noi. Noi anziani - anche nella Chiesa ­ gridiamo le nostre delusioni con troppo avvilimento in faccia ai figli che ci guardano. E così siamo una barriera, non un pungolo, fra la speranza della Chiesa che deve venire e le generazioni che sono già qui.

Quell’amore per il Papa che vive “in basso” di Ferdinando Camon Due modi di sentire un distacco e di attendere un incontro

Ci son due modi di sentire la rinuncia del Papa: uno in alto, tra le autorità, i media, i resoconti delle tv e dei giornali di tutto il mondo, le titolazioni, le spiegazioni, le cautele; e una in basso, tra la gente comune, il clero e i fedeli delle parrocchie, la gente delle periferie e delle campagne, in Italia e nel mondo. I giornali e le tv, gli storici e gli studiosi, cercavano di spiegare, di trasformare l’evento in articolo, libro, servizio, resoconto, in parole o immagini. I preti, le suore, l’autista del Papa, i servitori, i fedeli sparsi per i continenti, pregavano, applaudivano, alzavano cartelli, tenevano le mani giunte, piangevano. Li abbiamo visti in piazza San Pietro, facce di tutte le razze, vestiti di tutte le mode. Li abbiamo visti sui poggioli delle loro case, alzare le mani, come per un saluto ravvicinato, verso l’elicottero che portava papa Benedetto fuori dal Vaticano. Dall’alto trapelava l’idea che le 'dimissioni' del Papa sono un fatto che va affrontato razionalmente, c’è qualcosa da capire e da spiegare, perciò bisognava aprire libri, trovare i precedenti, consultare, citare: se trovi la fonte giusta, sistemi tutto. In basso c’era l’idea che è solo una questione di 'amore', bisognava mostrare al Papa più amore, bisogna mostrarglielo anche adesso, non è mai troppo tardi: così si spiegano tutti quei cartelli 'Ti vogliamo bene', 'Saremo sempre con Te', 'Non sei solo'. Molti, in basso, piangevano. Le suore, inquadrate di spalle, controluce, mentre salutano l’elicottero che transita da sinistra verso destra, dal Vaticano a Castel Gandolfo, agitando in aria i fazzoletti che ogni tanto riabbassano per asciugarsi gli occhi. L’autista che, mentre tutti coloro che per ragioni di lavoro avevano intimità con Benedetto XVI gli danno la mano, piegando la schiena e sussurrando qualcosa, lui s’inginocchia fino a toccar terra e si rialza piangendo, senza una parola. In basso, tra il miliardo e duecento milioni di cattolici sparsi sulla superficie della Terra, l’addio del Papa che si nasconde al mondo non è un problema: è un dolore. Non c’è niente da chiedersi. C’è soltanto da soffrire. È una prova della vita. Se la ricorderanno finché vivranno. La loro memoria, quando sarà confusa, situerà i fatti più importanti prima o dopo questa data: anche le malattie in famiglia, i ricoveri in ospedale, le nascite dei nipotini, i matrimoni, le morti dei parenti. L’elicottero che porta via il Papa, nella vita di questa generazione, resterà un unicum, un evento inconfondibile. Ai fedeli succede con questo Papa ciò che succede con i parenti: li si ama sempre di più man mano che s’avvicina il momento del distacco. Papa Benedetto la massa dei fedeli lo ha amato persino di più quando ha saputo che se ne andava. Lo amano moltissimo adesso che non è più Papa. Sentono che è una personalità complessa, in grado di conquistare l’attenzione dei dotti, dei sapienti, sulla base della cultura, la frequentazione dei testi­base dell’etica, ma in grado anche di attrarre la simpatia dei semplici, degli umili, per il frequente rinvio di ogni questione alla preghiera: la preghiera, nelle subtopie dei poveri del pianeta, è il rifugio nelle situazioni d’impotenza, il ricorso negli estremi pericoli, ma poiché i poveri sono sempre in estremo pericolo, conoscono bene quel rifugio. I poveri non capiscono il potere. Non amano le manovre del potere. Vedono questo Papa andar via senza indicare un qualche successore, nemmeno con allusioni. Chiunque sia, lui gli promette «reverenza e obbedienza». Così fa la massa di fedeli che aspettano, nel mondo. Come la folla che si radunerà in Piazza san Pietro, quando sarà il giorno. Saran devoti al nome che suonerà, prima ancora di sentirlo. Son devoti fin da adesso.