Sette anni sono passati, dalle prime denunce di
brogli. Sette anni di promesse, impegni, pensosi bla-bla-bla.
Eppure gli italiani all'estero torneranno al voto con le stesse regole pazze
che hanno permesso raggiri d'ogni tipo. Come quello ripreso in un video dove
dei ragazzotti nati e cresciuti in Australia, in cambio di una cassa di birra,
riempivano in un garage di Sydney centinaia di schede elettorali per mandare senatori
e deputati a Roma. Dice ora Berlusconi che sarebbe bene spostare il voto più in
là possibile perché «si può generare caos soprattutto per le elezioni
all'estero». Certo è che dopo avere osannato nel 2005 i nostri emigrati come
«strumento insostituibile della proiezione dell'Italia nel mondo» e dopo averli
attaccati nel 2006 («Non pagano le tasse, è discutibile che possano votare»)
perché proprio loro gli avevano fatto perdere per un pelo la maggioranza al
Senato, il Cavaliere non si è speso molto per cambiare quelle regole. Né, sia
chiaro, si sono spesi molto tutti gli altri. Racconta il senatore Claudio Micheloni, da mezzo secolo in Svizzera, che a un certo
punto parevano tutti d'accordo sulla necessità di cambiare almeno i punti più
scabrosi della legge del 2001 che attuando l'articolo 48 della Costituzione,
assegnò alle nostre comunità estere 12 deputati e 6 senatori divisi in 4
immense circoscrizioni planetarie. E i ritocchi, di buon senso, passarono
all'unanimità. Poi, però, si sono impantanati. Il grande sogno di Mirko
Tremaglia, che per decenni aveva girato il mondo promettendo a veneti e
calabresi, pugliesi e romagnoli che avrebbero potuto dire la loro in
Parlamento, è stato via via travolto da episodi
sconcertanti. Come il peso abnorme sui destini del governo Prodi
dell'italo-argentino Luigi Pallaro che si presentò
dicendo «chiunque vinca, io starò con l'esecutivo» e per mesi tenne tutti col
fiato sospeso: «C'è Pallaro? Il governo regge o va
sotto?». O l'ingresso a Palazzo Madama di uomini come il ricco Juan Esteban Caselli, detto «El obispo», il vescovo, assai discusso per i suoi rapporti coi
militari ai tempi della dittatura di Videla e
coinvolto dal ministro dell'Economia Domingo Cavallo nelle accuse di traffico
di armi e altre faccende finite al centro del giornalismo d'inchiesta di Buenos
Aires. O ancora lo sbarco a Montecitorio di uomini come Antonio Razzi,
improvvidamente candidato da Antonio Di Pietro e protagonista, con Domenico Scilipoti, di quello che è stato il salto della quaglia più
spettacolare della legislatura che va a chiudersi. Sancito dal voto di fiducia
al Cavaliere nella drammatica giornata del 14 dicembre 2010 e spiegato nella
confessione registrata di nascosto dal collega Francesco Barbato: «Se si votava
il 28 marzo com'era in programma, io per 10 giorni non pigliavo la pensione.
Hai capito? Io ho detto: ché, se c'ho 63 anni, giustamente, dove vado a
lavorare io? In Italia non ho mai lavorato. Che lavoro vado a fare? Mi spiego?
Io penso anche per i cazzi miei. Io ho pensato anche ai cazzi miei. Non me ne
frega. Perché Di Pietro pensa anche ai cazzi suoi... Mica pensa a me. Perciò
fatti un po' i cazzi tua e non rompere più i coglioni. E andiamo avanti. Così
anche tu ti manca un anno e poi entra il vitalizio». E come dimenticare Nicola
Di Girolamo? Entrò al Senato con 25 mila voti. Poi saltò fuori, come avrebbe
accertato la magistratura, che non viveva neppure all'estero: «Ha dichiarato
falsamente di essere residente in Belgio, nel Comune di Etterbeek,
Avenue de Tervueren n. 143. Tale affermazione si è
subito rivelata falsa in quanto, tra l'altro, nel territorio del Comune di Etterbeek non esiste alcuna Avenue de Tervueren
n. 143. Il Di Girolamo risultava assolutamente sconosciuto all'anagrafe belga».
Non bastasse, emersero rapporti d'affari con la 'ndrangheta (seguiti da una
richiesta d'arresto, dalle dimissioni e dal carcere) e l'intercettazione di una
telefonata in cui l'ambiguo «imprenditore» Gennaro Mokbel
gli diceva: «Se t'è venuta la candidite Nicò e se t'è venuta già a' senatorite
è un problema tuo, però sta attento che ultimamente te ne sei uscito tre volte
che io sono stato zitto ma oggi mo' m'hai riempito proprio le palle Nicò. Capito?». Quanto il sistema fosse a rischio, del
resto, fu confermato come dicevamo dal candidato trombato Paolo Rajo, autore del video citato e girato nel garage col
telefonino. Rajo raccontò a Repubblica.it
che quel rito elettorale era così distante nella testa degli italiani «australianizzati», che l'amico siciliano organizzatore del
broglio sembrava inconsapevole della gravità: «Mi ha detto candidamente
"Ma Paolo, noi ti stiamo già aiutando, in garage c'è me figghiu cu atri boy frend che ti
stanno a riempire le tue ballot paiper»
cioè le schede. Un episodio fra tanti, simile a quello denunciato in Venezuela
da Antonella Buono che presentò intercettazioni di questo tenore: «Senta, le
volevo dire che sono arrivate le tessere elettorali e noi in famiglia siamo
dieci e sa, mi hanno detto di mandarle tutto per posta e che poi voi
v'incaricate di riempirle...». Conferma la denuncia, del resto, un dossier del
Sindacato Nazionale Dipendenti Ministero Affari Esteri. Che dopo avere spiegato
di non volere «mettere in dubbio il diritto dei cittadini italiani residenti
all'estero di esprimere il proprio voto», accusa: «Dal punto di vista della
sicurezza del voto, è opportuno segnalare che i casi in cui le schede
elettorali sono state utilizzate impropriamente da candidati senza scrupoli
abbondano. Con il sistema attualmente in vigore, infatti, risulta fin troppo
facile fare incetta di plichi elettorali con o senza la complicità di elettori
non interessati ad esercitare il proprio diritto». Così com'è, il sistema
spalanca «un vero e proprio mercato all'ingrosso delle schede elettorali».
Molto meglio, piuttosto, «l'adozione del voto remoto, con procedure totalmente
informatizzate, sul modello adottato in Francia per le elezioni politiche
2012». Obiezioni circa la sicurezza? «Facilmente superabili dalla
considerazione che esso sarebbe infinitamente più sicuro di quello attuale...».
Eppure, salvo miracoli, 18 parlamentari saranno eletti ancora con quel sistema.
E magari saranno pure determinanti...
giovedì 20 dicembre 2012
Altri numeri per l’acqua alta di Davide Scalzotto
«A Venezia 120 centimetri di acqua alta». La notizia
diffusa dai tg nazionali di norma viene data al
termine del rullo sul maltempo, quasi come una nota di colore. Di solito si
accompagna alle immagini di turisti che si divertono a sguazzare in piazza San
Marco. Eppure quella frase, buttata là quasi per abitudine di per sè è drammatica, se non apocalittica. Pensate se la stessa
notizia venisse riferita a Roma, Londra, New York: «città sommersa da 120
centimetri di acqua». Si scatenerebbero i catastrofisti di mezzo mondo. E
infatti, malgrado l’acqua alta di Venezia sia considerata un fenomeno
caratteristico (come le aurore boreali al polo nord o le onde giganti delle
Hawaii), chi non è veneziano e sente certe misure si chiede come facciano i
veneziani ogni volta a riemergere da un simile flagello. Chi conosce la città e
la marea invece lo sa: 120 centimetri significa che San Marco va sotto di 35-40
centimetri, ma anche che gran parte del centro storico (l’80% circa) è
percorribile. E che anche laddove c’è l’acqua, ci sono le passerelle. Inutile
colpevolizzare i tg e i mass media non veneziani.
Ricevono e comunicano esattamente ciò che viene loro dato. Non possono stare lì
ogni volta a spiegare che i 120 centimetri corrispondono al livello del medio
mare misurato alla Punta della Salute. Quella è roba da Superquark, mica da tg. Il problema piuttosto è a monte. Per quanto
scientificamente inappuntabili, le comunicazioni del Centro maree vanno bene
per i veneziani, ma non per il resto del mondo. E visto che l’acqua alta
interessa anche il resto del mondo, specialmente quei turisti che devono
decidere se venire o meno a Venezia, la spiegazione scientifica non basta.
Nell’epoca della comunicazione rapida, c’è qualcosa che va cambiato. L’attuale
sistema di comunicazione non è un dogma: dove sta scritto che non si possa, ad
esempio, comunicare in maniera semplice che il tal giorno, anziché i 120
centimetri di marea, ci saranno 35 centimetri di acqua alta a San Marco? Perché
non prendere la piazza - il punto più basso della città - e tarare su quella le
misurazioni? Di più: si potrebbe anche aggiungere che ci saranno 35 centimetri
in piazza San Marco, 5 (per dire) a Rialto, 25 a San Trovaso, 4 in Strada
Nuova... Insomma, dare alcuni punti di riferimento della città. In ogni caso,
che si adotti l’attuale sistema o che si cambi, gli scherzi del meteo non
saranno comunque prevedibili e uno scarto di errore ci sarà sempre. Però almeno
si dice alla gente che scenario offre Venezia. Così come non sarebbe male
spiegare in poche parole che la marea 6 ore cala e 6 ore cresce. Che se viene
annunciata acqua alta per il tal giorno, la città non resta in ammollo per 24
ore, ma dopo due ore il livello dell’acqua si abbassa. Forse sarebbe un modo
per rendere meno apocalittica la visione della città che hanno i
"foresti", per aiutare chi di turismo vive e lavora e per non creare
allarmi ingiustificati in chi deve venire a Venezia o in chi c’è già e si
barrica in hotel con pinne e boccaglio in attesa della "grande onda",
alzando gli occhi al cielo temendo un bombardamento, ogni volta che suona la
sirena. Una proposta: perché non studiare e provare a sperimentare già nei
prossimi mesi una comunicazione nuova del fenomeno acqua alta? Meno scientifica
forse, ma sicuramente più efficace e comprensibile. Sempre che, ovviamente, i
Maya non arrivino prima.
lunedì 17 dicembre 2012
Martini, un sogno ad occhi aperti di Claudio Magris Solitudine e senso di appartenenza. Così la diocesi diventa polis (di tutti)
Gregorio Magno diceva che non avrebbe capito le cose
essenziali della vita senza i suoi fratelli, senza altre persone le quali,
anche senza rendersene conto, gli avevano fatto intravvedere aspetti e valori
dell'esistenza che altrimenti forse gli sarebbero sfuggiti. Il «discernimento»,
scrive Martini richiamandosi alle parole di Giovanni Paolo II al convegno di
Palermo, è certo anzitutto personale ma anche comunitario, risultato di un
dialogo che non appanna le differenze individuali, ma le arricchisce in
un'integrazione reciproca. Nelle pagine di questo libro, come in tutta l'opera
e la vita di Carlo Maria Martini, emerge, fra i tanti problemi radicali che
esse affrontano, il nesso drammatico ma saldo fra la solitudine dell'individuo
così spesso angosciato dinanzi alla morte e alla sofferenza e il senso della
sua appartenenza, pur spesso offuscata e travagliata, a una comunità - dalla
cerchia dei legami personali alla sfera del lavoro, dalla città al Paese,
all'umanità e, per Martini, a quella Chiesa universale che, prima di essere
un'istituzione religiosa, è la coralità del genere umano in Dio, conosciuto o
non conosciuto. Probabilmente sono stati anche gli studi biblici, dei quali
egli è maestro, ad aver dato a Martini questo sentimento fortissimo dell'uomo,
da un lato perduto nell'ansia, nell'ingiustizia e nella sofferenza e dall'altro
inserito in un tessuto universale, che gli permette di chiamare qualcuno anche
dal profondo della paura. Le pagine di Martini conoscono il «buco nero» dello
smarrimento non meno di quanto lo conoscano i profeti del nichilismo, ma non ne
fanno un idolo, un assoluto negativo in cui intellettualmente può anche essere
comodo rifugiarsi. C'è in queste pagine pure un senso acutissimo della Città,
ossia della Civitas, della civiltà, del cammino
comune degli uomini, colto nelle sue spesso tragiche contraddizioni e
difficoltà eppure mai perso di vista. Quello di Martini, ha scritto padre
Sorge, è un «pensare in grande». La diocesi diventa allora una polis, la città
di tutti gli uomini e del loro bene comune nella dialettica dei diversi
orientamenti, progetti e interessi; un modello di società civile che costruisce
«un suo ethos (...) vissuto nella quotidianità» e aperto a comunità più ampie.
Non è un caso, ad esempio, che in queste pagine si proclami strenuamente la
necessità di un'Europa realmente unita, nella consapevolezza che l'autentica
unione non è negazione delle diversità, bensì loro salvaguardia. Così le Chiese
locali vengono chiamate a un «cordiale radicamento» nelle diverse culture in
cui operano, distinguendosi nettamente da ogni loro organizzazione politica e
aiutandole a capire che la propria identità non è mai astiosa e asfissiante
chiusura. Evangelizzare la Città, il Paese, l'Europa, il mondo non significa in
primo luogo convertire, bensì gettare - come nella parabola del seminatore -
nei cuori degli uomini e nel meccanismo delle istituzioni i semi evangelici di
questo consapevole valore della vita condivisa. Il credente - che secondo
Martini deve sempre ascoltare quel non credente che c'è pure in lui come in
ogni uomo - è chiamato ad essere soprattutto «pensante», sottolinea Martini,
citando Norberto Bobbio da lui molto amato, ossia a rendersi conto delle
difficoltà con cui l'amore cristiano deve confrontarsi, specie in un'epoca di
sconcertanti cambiamenti, ora liberatori ora distruttivi. Uomo di confine, l'ha
definito Massimo Cacciari. Come ogni vero uomo di confine, Martini sa capire
quando i confini vanno oltrepassati e quando vanno difesi, quando bisogna
essere un passeur e quando bisogna essere una sentinella. Come i suoi
predecessori Ambrogio o Carlo Borromeo, Martini è «defensor civitatis»
e in questa difesa dell'umano rivendica il grande ruolo della cultura e
specialmente di quella classica, che non è raffinatezza antiquaria, bensì,
insieme alla Bibbia, fondamento della nostra civiltà e intelligenza dell'umano,
nient'affatto contrapposta ai saperi scientifici che mutano il mondo e la
visione del mondo ma capace di guardarli senza paura e senza idolatrie e di dar
loro un senso. Questa cultura, basata sulla terribile sapienza greca e
sull'insuperata arte di governo dell'antica Roma oltre che sulla Bibbia, non si
oppone ad alcun più modesto ma autentico sapere di chi non ha avuto possibilità
di dedicarsi a profondi studi, bensì a quella che i tedeschi chiamano «Halbkultur» (letteralmente «mezza cultura», ma sarebbe
meglio dire mezza calzetta), presuntuosa e pacchiana, che spesso trionfa nel
teatrino pseudointellettuale. I «non pensanti», per citare ancora il passo di
Bobbio così caro a Martini, si trovano molto spesso tra chi blatera di cultura.
«Defensor civitatis», Martini sa bene che la Città -
ossia la società, la realtà - è anche un buio inferno di violenza, di
solitudine, di sofferenza senza nome; conosce - sottolinea Ferruccio Parazzoli - le «città terribili» come i grandi scrittori
che si sono calati negli inferi contemporanei. Guarda in faccia la negazione
anche più dura, come l'ha guardata Cristo nel Getsemani,
chiedendo per un attimo di sottrarsi alla sua Passione. Queste pagine sono
ricche di temi, problemi, analisi, sfide che investono la nostra vita. La
realtà scaraventa addosso al pastore come a tutti gli uomini difficoltà,
disincanti, catastrofi e sconfitte; la sua risposta è ogni volta ferma e
aperta, un «buon combattimento», per usare l'espressione di San Paolo, pronto a
raccogliere la sfida e ad accettare il nuovo, ma irremovibile nella difesa dei
valori essenziali e non negoziabili. L'etica non è un sondaggio statistico dei
costumi in quel momento prevalenti. L'episcopato di Martini si incrocia con le
tempeste di una bruciante stagione storica di trasformazioni e sconvolgimenti,
dalla corruzione al terrorismo, dal disagio sociale spesso drammatico al
confronto con le ondate di immigrati e con le loro diverse fedi e tradizioni,
dalle ripercussioni del crollo del comunismo al terremoto della politica
italiana, dal dominio di una sfrenata e autodistruttiva corsa a un profitto
irreale a una crisi economica che impoverisce il Paese. «Quest'uomo misterioso
che parlava con eccessiva lentezza», ha scritto Ferruccio de Bortoli, sapeva «squarciare il velo della sofferta
rassegnazione». Nell'azione e nel pensiero di Martini la fede più solida si
unisce a un pragmatismo agguerrito, saldando così l'etica della convinzione a
quella della responsabilità. Mirabili, per citare solo qualche esempio, le
pagine sul rapporto tra la riaffermazione primaria della famiglia e la tutela
di altre forme di convivenza affettiva, o quelle, insieme ferme e aperte, sulla
caduta delle elementari evidenze etiche. Le difficoltà, spesso acri per i
cristiani, non vengono certo annacquate, ma Martini non vuole cristiani ansiosi
o incattiviti. Come l'individuo, pure la Chiesa deve accettare le sfide del
tempo, proprio perché il cristianesimo è la fede che si è più calata, calando
anche Dio, nella storicità e nella precarietà del tempo. Questo ha portato
Martini a criticare a viso aperto, con durezza, molte carenze, cedimenti,
infedeltà della Chiesa e a porsi talora in contrasto con la Curia vaticana su
alcuni temi essenziali: la libertà di credere e di scegliere secondo il dettame
della propria coscienza, il rischio di vivere, il dialogo ecumenico,
fondamentale per chi, come lui, si è nutrito per tutta la vita del pensiero e
della cultura ebraica, pastore di Milano ma altrettanto cittadino di
Gerusalemme. In Martini vive lo spirito del Concilio, appreso pure alla grande
scuola innovatrice della Chiesa tedesca, che con Augustin
Bea, Joseph Ratzinger e altri, è stata, più di mezzo secolo fa, portatrice
delle istanze più avanzate e audaci del Concilio stesso, mettendosi talora in
contrasto con la Curia romana d'allora. Il rigore filologico del grande
studioso, che non transige su una virgola del testo, diventa rigore morale
dinanzi ad ogni violazione; il metodo induttivo della ricerca, che risale alla
verità partendo dal basso, è di per sé, ha osservato Marco Garzonio,
libera indagine, opposta al metodo deduttivo che fa dogmaticamente discendere
dall'alto la verità sul reale. Martini non si è lasciato sconcertare, come
forse è accaduto a Ratzinger, da alcune sfasate e insensate derive assemblear-pulsionali che hanno malamente accompagnato lo
spirito innovatore di quegli anni, intimorendo talora alcuni suoi stessi
protagonisti; senza sgarrare di un millimetro dai capisaldi della fede e della
morale cristiana, non ha permesso ad alcun confuso disordine di farlo arretrare
dalla sua ferma e pacata apertura. Ha conosciuto, prima e dopo la sua morte,
molte livide ostilità da parte dell'ala conservatrice della Chiesa, forse
enfatizzate pure dalla vulgata mediatica, anche se egli si è definito
«tradizionalista»; infatti l'autentica tradizione, come scriveva anni fa
Rodolfo Quadrelli, forte saggista e poeta cattolico avverso ad ogni
progressismo di maniera, è la continuità della Chiesa che cresce creativamente
fedele a se stessa, senza snaturarsi e irrigidirsi. Nega questa creativa
tradizione sia chi vuole bloccare la Chiesa nel passato, come se poi fosse
morta e sclerotizzata, sia chi la vuole far cominciare con i fermenti del
Concilio, come se prima fosse in catalessi. Martini sapeva che il Concilio le
aveva impresso un nuovo grande slancio, una peculiare forza di parlare al
mondo. Martini era maestro di laicità, ossia di quella capacità di distinguere fra
ciò in cui si può credere e ciò che si può dimostrare; laicità oggi minacciata
dal fondamentalismo clericale e da quello laicista egualmente intolleranti. Da
questo spirito autenticamente laico, nasce una delle più forti preoccupazioni
espresse da Martini, anche in queste pagine: la preoccupazione per la
sopravvivenza dell'ethos politico, sempre più cancellato dalla
politica-spettacolo, dall'indecenza sfrontata, dall'esibita negazione delle più
elementari virtù civili. Oggi è al potere una colloidale classe sociale non più
socialmente definibile, se non con quel termine con cui Marx
designava il sottoproletariato oppresso e sfruttato al punto di aver perso
coscienza di sé, proletariato intellettualmente, moralmente e politicamente
«pezzente» (Lumpenproletariat), parola che oggi ben
si adatta a definire una gelatinosa classe media generale che non si può
classificare né bassa né media né alta, una vaga e indifferente «gente». Anche
la collaborazione di Martini al Corriere, negli ultimi anni e in quelli lontani
della stagione più difficile del Corriere - quelle «schegge lucenti di cultura
e di grazia dei suoi articoli», come li chiamava il direttore di allora,
Alberto Cavallari - è stata una prova di questo
impegno civile. Evangelizzare la nostra società, nel senso proprio e in quello
lato, è un compito così arduo da sembrare perfino a Martini un sogno, anche se,
come egli precisa, non certo inteso quale fuga nella fantasia. «Lasciateci
sognare», dice il titolo di questo libro, titolo inadeguato al libro stesso,
che non è l'invocazione di un'anima bella a essere lasciata in pace nelle sue
nobili aspirazioni lontane dalla realtà, ma è un buon combattimento a occhi ben
aperti sulla realtà, per cambiarla e non solo per sognare di cambiarla, per
impedire che ci si appisoli davanti al male.
Oltre l’indifferenza di Pierangelo Sequeri Questo tempo per vedere i frutti dell’avidità, di cose e di sé
Che dobbiamo fare?», dice la folla. La domanda è
rivolta a Giovanni il Battista, e siamo all’inizio di tutto. Giovanni percorre
l’intera regione del Giordano, restituendo vita a un’antica parola di Dio:
«Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore, raddrizzate i
suoi sentieri». La parola viene dal libro di Isaia. La vita ce la mette
Giovanni: «Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira imminente?
Fate dunque opere di conversione». (E non mi venite a dire che siete figli di
Abramo e avete già dato. Incominciate da voi stessi). Quanto alla domanda, che
in molti gli rivolgono, la risposta di Giovanni è molto concreta: chi ha il
doppio di tutto, può campare benissimo anche con la metà; e chi ha potere sugli
altri si accontenti del giusto, senza estorcere niente a nessuno. In altre
parole, non siate ingordi di beni, non abusate del potere. Per il resto, Colui
che deve venire, aprirà il vostro cuore con Spirito santo e fuoco: e saprete
davvero chi siete e che cosa valete. Non è poi così enigmatico e fumoso, questo
ammonimento, vero? Volessimo riassumerlo, per la nostra condizione odierna,
potremmo dire così. La prima mossa, per sgomberare il terreno al Signore che
viene, è questa: mettere risolutamente fuori gioco l’avidità. Deve essere un
soprassalto collettivo, una conversione della mente, uno scatto di orgoglio.
Domandiamoci tutti insieme: che razza di stile di vita è mai il nostro? Figli
di Abramo, figli di Kant, figli di Mazzini o di chi
volete voi: ma adesso, che cosa siamo diventati? Non meno di un moto collettivo
di pura dignità ci è necessario, ormai. Ci siamo troppo intorpiditi,
sottovalutando il pericolo. Fino all’istupidimento. L’avidità è un virus che
lavora sottotraccia, ramifica nel sangue e nel cuore: sperpera beni che possono
benissimo essere condivisi, genera conflitto e abuso di potere, diffonde
arroganza e insegna a trattare male tutti. Non te ne accorgi, e a un certo
momento cresce l’assuefazione a ringhiarsi addosso, a
sbeffeggiare gli onesti, a diffidare tutti, a essere indifferenti a tutti.
Ecco, a quel punto, l’avidità ha fatto il suo lavoro di erosione: si incrinano
i pilastri, cedono i ponti. L’assuefazione all’avidità (anche in chi non ci
guadagna niente) ha abbassato la soglia di allerta, ha liberalizzato la soglia
della decenza, ha imparato a giustificarsi come un diritto. Infine, si insedia
come uno scopo. Nella scena evangelica seguente, arriva la rivelazione che ci è
necessaria. Subito dopo il battesimo di Giovanni, Gesù entra nella sinagoga di Nazaret, riceve il rotolo del profeta Isaia – sempre lui –
e trova un altro passo. «Lo Spirito del Signore è su di me; per questo mi ha
consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto
messaggio». I segni? Sono segni di guarigione dal male, di liberazione dalla
schiavitù, di restituzione della speranza. Sono i segni dello Spirito al
lavoro. E del fuoco che riscalda l’umana convivenza, ridestando speranza per il
suo riscatto, capace di un calore che Dio soltanto può infondere. È la pars construens, il lato costruttivo che ci mancava. Il vangelo
di Gesù rilancia, non si accontenta del pareggio. Colmati i fossati, spianati
gli ostacoli, deve rientrare in circolazione la passione di non lasciare
indietro nessuno, l’entusiasmo di riaggregare i dispersi e gli smarriti, la
gioia di dividere le cose buone, i pensieri migliori, i fondamentali
dell’umano, i legami che ci sostengono l’anima. L’effetto implacabile
dell’avidità, infatti, è l’indifferenza. Può sembrare, all’inizio, che
l’avidità accenda il desiderio. Lo ammazza invece. L’avidità trasforma la città
in un formicaio impazzito. L’indifferenza desertifica l’anima. Come già
l’avidità, anche l’indifferenza, ora, sta cercando di accreditarsi ai piani
nobili (si fa per dire) della coscienza collettiva. L’indifferenza ha il ciglio
asciutto e razionale, non si aspetta più niente da Dio (e neppure dagli
uomini). È agnostica, nella sua versione elegante, anche verso la moralità
condivisa. Istruisce l’individuo emancipato a pensare semplicemente a se
stesso, come fosse una superiore forma di modestia intellettuale (lo è, in
effetti, ma in un altro senso). L’indifferente non pretende di essere sostegno
per nessuno, e coltiva l’ambizione di essersi fatto esclusivamente da sé (a
parole). Questa perfetta indifferenza a Dio e al prossimo non è autonomia. L’indifferentismo
è parassitismo. Non c’è che Dio, in Spirito e fuoco, che possa illuminarci e
riscaldarci al riguardo. Il Signore viene, e ce lo spiega: con parole e segni
inequivocabili. Se questa volta lo lasciamo arrivare fino al cuore, ci
sentiremo come liberati da un brutto sogno. Impareremo anche a commuoverci e a
sorriderci, dalla voglia che avremo di ricominciare insieme.
L’appello del Pontefice: “I potenti non rubino” di G.G.V.
Città del Vaticano - «La conversione comincia
dall'onestà e dal rispetto degli altri: un'indicazione che vale per tutti,
specialmente per chi ha maggiori responsabilità». Benedetto XVI, all'Angelus di
ieri, si è rivolto in particolare a chi ha potere e incarichi pubblici
ricordando il settimo comandamento: non rubare. Una riflessione che parte dalla
risposta che Giovanni Battista, nel Vangelo, dà ai «pubblicani», gli esattori
delle tasse per conto dei romani: «Già per questo i pubblicani erano
disprezzati, e anche perché spesso approfittavano della loro posizione per
rubare», ha spiegato il Papa. «Ad essi il Battista non dice di cambiare
mestiere, ma di non esigere nulla di più di quanto è stato fissato. Il profeta,
a nome di Dio, non chiede gesti eccezionali, ma anzitutto il compimento onesto
del proprio dovere». Insomma, «il primo passo verso la vita eterna è sempre
l'osservanza dei comandamenti, in questo caso il settimo: non rubare». Giovanni
si rivolge anche ai soldati, «categoria dotata di un certo potere e quindi
tentata di abusarne», e dice loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a
nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». Parole di «grande concretezza» che
valgono ora come allora, ha spiegato il Pontefice: «Dal momento che Dio ci
giudicherà secondo le nostre opere, è lì, nei comportamenti, che bisogna
dimostrare di seguire la sua volontà. E proprio per questo le indicazioni del
Battista sono sempre attuali: anche nel nostro mondo così complesso, le cose
andrebbero molto meglio se ciascuno osservasse queste regole di condotta». Del
resto vale per tutti, è alla folla che Giovanni dice: «Chi ha due tuniche, ne
dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Benedetto XVI
commenta: «Qui possiamo vedere un criterio di giustizia, animato dalla carità.
La giustizia chiede di superare lo squilibrio tra chi ha il superfluo e chi
manca del necessario; la carità spinge ad essere attento all'altro e ad andare
incontro al suo bisogno, invece di trovare giustificazioni per difendere i
propri interessi».
martedì 11 dicembre 2012
mercoledì 5 dicembre 2012
I distruttori delle riforme di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi L’insostenibile peso della burocrazia
Si dice spesso che le riforme non si fanno perché lo
slancio riformatore di molti governi (compreso quello attuale) è bloccato dai
partiti, i quali in Parlamento difendono gli interessi di chi, per effetto di
quelle riforme, perderebbe i propri privilegi. Vero, ma non è l'unico scoglio.
Un altro ostacolo, altrettanto importante, è frapposto dalla burocrazia e dai
suoi alti dirigenti. Un esempio: da oltre sei mesi si discute di come eliminare
i sussidi e le agevolazioni di cui godono talune imprese (senza vi sia alcuna
evidenza che questi aiuti favoriscano la crescita), in cambio di una riduzione
del cuneo fiscale, cioè restringendo la forbice che separa il costo del lavoro
per l'impresa dal salario percepito dal lavoratore. È una scelta con la quale
concordano sia Confindustria sia i sindacati. Ma la proposta, pur auspicata dal
presidente del Consiglio, non è neppure arrivata in Parlamento: da mesi la
burocrazia la blocca. Perché? Semplice: eliminare questo o quel sussidio
significa chiudere l'ufficio ministeriale che lo amministra e assegnare il
dirigente che lo guida a un diverso incarico. Ciò per lui significa perdere il
potere che deriva dall'amministrare ingenti risorse pubbliche. È così che i
dirigenti si oppongono sempre e comunque a riduzioni della spesa che
amministrano, indipendentemente dal fatto che serva, o meno, a qualcosa. Ma
basta questo per bloccare una riforma che anche i partiti in Parlamento
auspicano? Perché la burocrazia ha questo potere? Fino a qualche anno fa i
funzionari erano di fatto inamovibili: i ministri andavano e venivano, ma i
dirigenti dei ministeri rimanevano. Non è più così. Oggi gli alti funzionari si
possono sostituire, e tuttavia nulla è cambiato. Il motivo del loro potere è
più sottile e ha a che fare con il monopolio delle informazioni. La gestione di
un ministero è una questione complessa, che richiede dimestichezza con il bilancio
dello Stato e il diritto amministrativo, e soprattutto buoni rapporti con la
burocrazia degli altri ministeri. I dirigenti hanno il monopolio di questa
informazione e di questi rapporti, e hanno tutto l'interesse a mantenerlo.
Hanno anche l'interesse a rendere il funzionamento dei loro uffici il più opaco
e complicato possibile, in modo da essere i soli a poterli far funzionare. E
così quando arriva un nuovo ministro, animato dalle migliori intenzioni
(soprattutto se estraneo alla politica e per questo più propenso al
cambiamento), a ogni sua proposta la burocrazia oppone ostacoli che appaiono
incomprensibili, ma che i dirigenti affermano essere insormontabili. E comunque
gli ricordano che prima di pensare alle novità ci sono decine di scadenze e adempimenti
di cui occuparsi: non farlo produrrebbe effetti gravissimi. Spaventato, il
ministro finisce per affidarsi a chi nel ministero c'è da tempo. È l'inizio
della fine delle riforme. E se per caso il governo ne vara qualcuna senza
ascoltare la burocrazia, questa mette in campo uno strumento potente: solo i
dirigenti, infatti, sono in grado di redigere i decreti attuativi, senza i
quali la nuova legge è inefficace. Basta ritardarli o scriverli prevedendo
norme inapplicabili per vanificare la riforma. Prendiamo il caso delle pur
timide liberalizzazioni varate in primavera con il decreto «cresci Italia»:
come ricordava il Corriere il 19 novembre, fino a poche settimane fa, su 53
regolamenti attuativi ne erano stati emanati soltanto 11. Che fare? La prima decisione
di ogni nuovo ministro deve essere la sostituzione degli alti dirigenti del
ministero che gli è stato affidato, a partire dal capo di gabinetto. Il
ricambio deve cominciare da coloro che da più tempo occupano lo stesso posto e
per questo sono spesso i più conservatori, cioè i meno propensi al cambiamento.
I costi sono ovvi: un nuovo dirigente ci metterà un po' a prendere in mano le
redini del ministero. Ma è un costo che val la pena pagare, quanto più si vuol
cambiare. Certo, c'è il rischio che le nomine siano solo politiche, e cioè che
invece di dirigenti preparati il ministro scelga in base alle appartenenze
politiche. Questo è possibile, ma saranno poi gli elettori a decidere se un
governo ha cambiato qualcosa. E i cittadini giudicheranno un governo anche
dalla qualità delle persone cui ha affidato l'amministrazione dello Stato. È
comunque un sistema migliore di quello di oggi in cui dirigenti non eletti
ostacolano e influenzano l'operato di governi eletti direttamente, o
indirettamente come nel caso di questo governo «tecnico».
martedì 4 dicembre 2012
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