giovedì 20 dicembre 2012

Brogli, raggiri e residenze fasulle. Ma la legge sul voto all’estero non cambia di Gian Antonio Stella Da Razzi a Di Girolamo, sbarcati a Roma personaggi indimenticabili

Sette anni sono passati, dalle prime denunce di brogli. Sette anni di promesse, impegni, pensosi bla-bla-bla. Eppure gli italiani all'estero torneranno al voto con le stesse regole pazze che hanno permesso raggiri d'ogni tipo. Come quello ripreso in un video dove dei ragazzotti nati e cresciuti in Australia, in cambio di una cassa di birra, riempivano in un garage di Sydney centinaia di schede elettorali per mandare senatori e deputati a Roma. Dice ora Berlusconi che sarebbe bene spostare il voto più in là possibile perché «si può generare caos soprattutto per le elezioni all'estero». Certo è che dopo avere osannato nel 2005 i nostri emigrati come «strumento insostituibile della proiezione dell'Italia nel mondo» e dopo averli attaccati nel 2006 («Non pagano le tasse, è discutibile che possano votare») perché proprio loro gli avevano fatto perdere per un pelo la maggioranza al Senato, il Cavaliere non si è speso molto per cambiare quelle regole. Né, sia chiaro, si sono spesi molto tutti gli altri. Racconta il senatore Claudio Micheloni, da mezzo secolo in Svizzera, che a un certo punto parevano tutti d'accordo sulla necessità di cambiare almeno i punti più scabrosi della legge del 2001 che attuando l'articolo 48 della Costituzione, assegnò alle nostre comunità estere 12 deputati e 6 senatori divisi in 4 immense circoscrizioni planetarie. E i ritocchi, di buon senso, passarono all'unanimità. Poi, però, si sono impantanati. Il grande sogno di Mirko Tremaglia, che per decenni aveva girato il mondo promettendo a veneti e calabresi, pugliesi e romagnoli che avrebbero potuto dire la loro in Parlamento, è stato via via travolto da episodi sconcertanti. Come il peso abnorme sui destini del governo Prodi dell'italo-argentino Luigi Pallaro che si presentò dicendo «chiunque vinca, io starò con l'esecutivo» e per mesi tenne tutti col fiato sospeso: «C'è Pallaro? Il governo regge o va sotto?». O l'ingresso a Palazzo Madama di uomini come il ricco Juan Esteban Caselli, detto «El obispo», il vescovo, assai discusso per i suoi rapporti coi militari ai tempi della dittatura di Videla e coinvolto dal ministro dell'Economia Domingo Cavallo nelle accuse di traffico di armi e altre faccende finite al centro del giornalismo d'inchiesta di Buenos Aires. O ancora lo sbarco a Montecitorio di uomini come Antonio Razzi, improvvidamente candidato da Antonio Di Pietro e protagonista, con Domenico Scilipoti, di quello che è stato il salto della quaglia più spettacolare della legislatura che va a chiudersi. Sancito dal voto di fiducia al Cavaliere nella drammatica giornata del 14 dicembre 2010 e spiegato nella confessione registrata di nascosto dal collega Francesco Barbato: «Se si votava il 28 marzo com'era in programma, io per 10 giorni non pigliavo la pensione. Hai capito? Io ho detto: ché, se c'ho 63 anni, giustamente, dove vado a lavorare io? In Italia non ho mai lavorato. Che lavoro vado a fare? Mi spiego? Io penso anche per i cazzi miei. Io ho pensato anche ai cazzi miei. Non me ne frega. Perché Di Pietro pensa anche ai cazzi suoi... Mica pensa a me. Perciò fatti un po' i cazzi tua e non rompere più i coglioni. E andiamo avanti. Così anche tu ti manca un anno e poi entra il vitalizio». E come dimenticare Nicola Di Girolamo? Entrò al Senato con 25 mila voti. Poi saltò fuori, come avrebbe accertato la magistratura, che non viveva neppure all'estero: «Ha dichiarato falsamente di essere residente in Belgio, nel Comune di Etterbeek, Avenue de Tervueren n. 143. Tale affermazione si è subito rivelata falsa in quanto, tra l'altro, nel territorio del Comune di Etterbeek non esiste alcuna Avenue de Tervueren n. 143. Il Di Girolamo risultava assolutamente sconosciuto all'anagrafe belga». Non bastasse, emersero rapporti d'affari con la 'ndrangheta (seguiti da una richiesta d'arresto, dalle dimissioni e dal carcere) e l'intercettazione di una telefonata in cui l'ambiguo «imprenditore» Gennaro Mokbel gli diceva: «Se t'è venuta la candidite Nicò e se t'è venuta già a' senatorite è un problema tuo, però sta attento che ultimamente te ne sei uscito tre volte che io sono stato zitto ma oggi mo' m'hai riempito proprio le palle Nicò. Capito?». Quanto il sistema fosse a rischio, del resto, fu confermato come dicevamo dal candidato trombato Paolo Rajo, autore del video citato e girato nel garage col telefonino. Rajo raccontò a Repubblica.it che quel rito elettorale era così distante nella testa degli italiani «australianizzati», che l'amico siciliano organizzatore del broglio sembrava inconsapevole della gravità: «Mi ha detto candidamente "Ma Paolo, noi ti stiamo già aiutando, in garage c'è me figghiu cu atri boy frend che ti stanno a riempire le tue ballot paiper» cioè le schede. Un episodio fra tanti, simile a quello denunciato in Venezuela da Antonella Buono che presentò intercettazioni di questo tenore: «Senta, le volevo dire che sono arrivate le tessere elettorali e noi in famiglia siamo dieci e sa, mi hanno detto di mandarle tutto per posta e che poi voi v'incaricate di riempirle...». Conferma la denuncia, del resto, un dossier del Sindacato Nazionale Dipendenti Ministero Affari Esteri. Che dopo avere spiegato di non volere «mettere in dubbio il diritto dei cittadini italiani residenti all'estero di esprimere il proprio voto», accusa: «Dal punto di vista della sicurezza del voto, è opportuno segnalare che i casi in cui le schede elettorali sono state utilizzate impropriamente da candidati senza scrupoli abbondano. Con il sistema attualmente in vigore, infatti, risulta fin troppo facile fare incetta di plichi elettorali con o senza la complicità di elettori non interessati ad esercitare il proprio diritto». Così com'è, il sistema spalanca «un vero e proprio mercato all'ingrosso delle schede elettorali». Molto meglio, piuttosto, «l'adozione del voto remoto, con procedure totalmente informatizzate, sul modello adottato in Francia per le elezioni politiche 2012». Obiezioni circa la sicurezza? «Facilmente superabili dalla considerazione che esso sarebbe infinitamente più sicuro di quello attuale...». Eppure, salvo miracoli, 18 parlamentari saranno eletti ancora con quel sistema. E magari saranno pure determinanti...

Altri numeri per l’acqua alta di Davide Scalzotto

«A Venezia 120 centimetri di acqua alta». La notizia diffusa dai tg nazionali di norma viene data al termine del rullo sul maltempo, quasi come una nota di colore. Di solito si accompagna alle immagini di turisti che si divertono a sguazzare in piazza San Marco. Eppure quella frase, buttata là quasi per abitudine di per è drammatica, se non apocalittica. Pensate se la stessa notizia venisse riferita a Roma, Londra, New York: «città sommersa da 120 centimetri di acqua». Si scatenerebbero i catastrofisti di mezzo mondo. E infatti, malgrado l’acqua alta di Venezia sia considerata un fenomeno caratteristico (come le aurore boreali al polo nord o le onde giganti delle Hawaii), chi non è veneziano e sente certe misure si chiede come facciano i veneziani ogni volta a riemergere da un simile flagello. Chi conosce la città e la marea invece lo sa: 120 centimetri significa che San Marco va sotto di 35-40 centimetri, ma anche che gran parte del centro storico (l’80% circa) è percorribile. E che anche laddove c’è l’acqua, ci sono le passerelle. Inutile colpevolizzare i tg e i mass media non veneziani. Ricevono e comunicano esattamente ciò che viene loro dato. Non possono stare lì ogni volta a spiegare che i 120 centimetri corrispondono al livello del medio mare misurato alla Punta della Salute. Quella è roba da Superquark, mica da tg. Il problema piuttosto è a monte. Per quanto scientificamente inappuntabili, le comunicazioni del Centro maree vanno bene per i veneziani, ma non per il resto del mondo. E visto che l’acqua alta interessa anche il resto del mondo, specialmente quei turisti che devono decidere se venire o meno a Venezia, la spiegazione scientifica non basta. Nell’epoca della comunicazione rapida, c’è qualcosa che va cambiato. L’attuale sistema di comunicazione non è un dogma: dove sta scritto che non si possa, ad esempio, comunicare in maniera semplice che il tal giorno, anziché i 120 centimetri di marea, ci saranno 35 centimetri di acqua alta a San Marco? Perché non prendere la piazza - il punto più basso della città - e tarare su quella le misurazioni? Di più: si potrebbe anche aggiungere che ci saranno 35 centimetri in piazza San Marco, 5 (per dire) a Rialto, 25 a San Trovaso, 4 in Strada Nuova... Insomma, dare alcuni punti di riferimento della città. In ogni caso, che si adotti l’attuale sistema o che si cambi, gli scherzi del meteo non saranno comunque prevedibili e uno scarto di errore ci sarà sempre. Però almeno si dice alla gente che scenario offre Venezia. Così come non sarebbe male spiegare in poche parole che la marea 6 ore cala e 6 ore cresce. Che se viene annunciata acqua alta per il tal giorno, la città non resta in ammollo per 24 ore, ma dopo due ore il livello dell’acqua si abbassa. Forse sarebbe un modo per rendere meno apocalittica la visione della città che hanno i "foresti", per aiutare chi di turismo vive e lavora e per non creare allarmi ingiustificati in chi deve venire a Venezia o in chi c’è già e si barrica in hotel con pinne e boccaglio in attesa della "grande onda", alzando gli occhi al cielo temendo un bombardamento, ogni volta che suona la sirena. Una proposta: perché non studiare e provare a sperimentare già nei prossimi mesi una comunicazione nuova del fenomeno acqua alta? Meno scientifica forse, ma sicuramente più efficace e comprensibile. Sempre che, ovviamente, i Maya non arrivino prima.

lunedì 17 dicembre 2012

Martini, un sogno ad occhi aperti di Claudio Magris Solitudine e senso di appartenenza. Così la diocesi diventa polis (di tutti)

Gregorio Magno diceva che non avrebbe capito le cose essenziali della vita senza i suoi fratelli, senza altre persone le quali, anche senza rendersene conto, gli avevano fatto intravvedere aspetti e valori dell'esistenza che altrimenti forse gli sarebbero sfuggiti. Il «discernimento», scrive Martini richiamandosi alle parole di Giovanni Paolo II al convegno di Palermo, è certo anzitutto personale ma anche comunitario, risultato di un dialogo che non appanna le differenze individuali, ma le arricchisce in un'integrazione reciproca. Nelle pagine di questo libro, come in tutta l'opera e la vita di Carlo Maria Martini, emerge, fra i tanti problemi radicali che esse affrontano, il nesso drammatico ma saldo fra la solitudine dell'individuo così spesso angosciato dinanzi alla morte e alla sofferenza e il senso della sua appartenenza, pur spesso offuscata e travagliata, a una comunità - dalla cerchia dei legami personali alla sfera del lavoro, dalla città al Paese, all'umanità e, per Martini, a quella Chiesa universale che, prima di essere un'istituzione religiosa, è la coralità del genere umano in Dio, conosciuto o non conosciuto. Probabilmente sono stati anche gli studi biblici, dei quali egli è maestro, ad aver dato a Martini questo sentimento fortissimo dell'uomo, da un lato perduto nell'ansia, nell'ingiustizia e nella sofferenza e dall'altro inserito in un tessuto universale, che gli permette di chiamare qualcuno anche dal profondo della paura. Le pagine di Martini conoscono il «buco nero» dello smarrimento non meno di quanto lo conoscano i profeti del nichilismo, ma non ne fanno un idolo, un assoluto negativo in cui intellettualmente può anche essere comodo rifugiarsi. C'è in queste pagine pure un senso acutissimo della Città, ossia della Civitas, della civiltà, del cammino comune degli uomini, colto nelle sue spesso tragiche contraddizioni e difficoltà eppure mai perso di vista. Quello di Martini, ha scritto padre Sorge, è un «pensare in grande». La diocesi diventa allora una polis, la città di tutti gli uomini e del loro bene comune nella dialettica dei diversi orientamenti, progetti e interessi; un modello di società civile che costruisce «un suo ethos (...) vissuto nella quotidianità» e aperto a comunità più ampie. Non è un caso, ad esempio, che in queste pagine si proclami strenuamente la necessità di un'Europa realmente unita, nella consapevolezza che l'autentica unione non è negazione delle diversità, bensì loro salvaguardia. Così le Chiese locali vengono chiamate a un «cordiale radicamento» nelle diverse culture in cui operano, distinguendosi nettamente da ogni loro organizzazione politica e aiutandole a capire che la propria identità non è mai astiosa e asfissiante chiusura. Evangelizzare la Città, il Paese, l'Europa, il mondo non significa in primo luogo convertire, bensì gettare - come nella parabola del seminatore - nei cuori degli uomini e nel meccanismo delle istituzioni i semi evangelici di questo consapevole valore della vita condivisa. Il credente - che secondo Martini deve sempre ascoltare quel non credente che c'è pure in lui come in ogni uomo - è chiamato ad essere soprattutto «pensante», sottolinea Martini, citando Norberto Bobbio da lui molto amato, ossia a rendersi conto delle difficoltà con cui l'amore cristiano deve confrontarsi, specie in un'epoca di sconcertanti cambiamenti, ora liberatori ora distruttivi. Uomo di confine, l'ha definito Massimo Cacciari. Come ogni vero uomo di confine, Martini sa capire quando i confini vanno oltrepassati e quando vanno difesi, quando bisogna essere un passeur e quando bisogna essere una sentinella. Come i suoi predecessori Ambrogio o Carlo Borromeo, Martini è «defensor civitatis» e in questa difesa dell'umano rivendica il grande ruolo della cultura e specialmente di quella classica, che non è raffinatezza antiquaria, bensì, insieme alla Bibbia, fondamento della nostra civiltà e intelligenza dell'umano, nient'affatto contrapposta ai saperi scientifici che mutano il mondo e la visione del mondo ma capace di guardarli senza paura e senza idolatrie e di dar loro un senso. Questa cultura, basata sulla terribile sapienza greca e sull'insuperata arte di governo dell'antica Roma oltre che sulla Bibbia, non si oppone ad alcun più modesto ma autentico sapere di chi non ha avuto possibilità di dedicarsi a profondi studi, bensì a quella che i tedeschi chiamano «Halbkultur» (letteralmente «mezza cultura», ma sarebbe meglio dire mezza calzetta), presuntuosa e pacchiana, che spesso trionfa nel teatrino pseudointellettuale. I «non pensanti», per citare ancora il passo di Bobbio così caro a Martini, si trovano molto spesso tra chi blatera di cultura. «Defensor civitatis», Martini sa bene che la Città - ossia la società, la realtà - è anche un buio inferno di violenza, di solitudine, di sofferenza senza nome; conosce - sottolinea Ferruccio Parazzoli - le «città terribili» come i grandi scrittori che si sono calati negli inferi contemporanei. Guarda in faccia la negazione anche più dura, come l'ha guardata Cristo nel Getsemani, chiedendo per un attimo di sottrarsi alla sua Passione. Queste pagine sono ricche di temi, problemi, analisi, sfide che investono la nostra vita. La realtà scaraventa addosso al pastore come a tutti gli uomini difficoltà, disincanti, catastrofi e sconfitte; la sua risposta è ogni volta ferma e aperta, un «buon combattimento», per usare l'espressione di San Paolo, pronto a raccogliere la sfida e ad accettare il nuovo, ma irremovibile nella difesa dei valori essenziali e non negoziabili. L'etica non è un sondaggio statistico dei costumi in quel momento prevalenti. L'episcopato di Martini si incrocia con le tempeste di una bruciante stagione storica di trasformazioni e sconvolgimenti, dalla corruzione al terrorismo, dal disagio sociale spesso drammatico al confronto con le ondate di immigrati e con le loro diverse fedi e tradizioni, dalle ripercussioni del crollo del comunismo al terremoto della politica italiana, dal dominio di una sfrenata e autodistruttiva corsa a un profitto irreale a una crisi economica che impoverisce il Paese. «Quest'uomo misterioso che parlava con eccessiva lentezza», ha scritto Ferruccio de Bortoli, sapeva «squarciare il velo della sofferta rassegnazione». Nell'azione e nel pensiero di Martini la fede più solida si unisce a un pragmatismo agguerrito, saldando così l'etica della convinzione a quella della responsabilità. Mirabili, per citare solo qualche esempio, le pagine sul rapporto tra la riaffermazione primaria della famiglia e la tutela di altre forme di convivenza affettiva, o quelle, insieme ferme e aperte, sulla caduta delle elementari evidenze etiche. Le difficoltà, spesso acri per i cristiani, non vengono certo annacquate, ma Martini non vuole cristiani ansiosi o incattiviti. Come l'individuo, pure la Chiesa deve accettare le sfide del tempo, proprio perché il cristianesimo è la fede che si è più calata, calando anche Dio, nella storicità e nella precarietà del tempo. Questo ha portato Martini a criticare a viso aperto, con durezza, molte carenze, cedimenti, infedeltà della Chiesa e a porsi talora in contrasto con la Curia vaticana su alcuni temi essenziali: la libertà di credere e di scegliere secondo il dettame della propria coscienza, il rischio di vivere, il dialogo ecumenico, fondamentale per chi, come lui, si è nutrito per tutta la vita del pensiero e della cultura ebraica, pastore di Milano ma altrettanto cittadino di Gerusalemme. In Martini vive lo spirito del Concilio, appreso pure alla grande scuola innovatrice della Chiesa tedesca, che con Augustin Bea, Joseph Ratzinger e altri, è stata, più di mezzo secolo fa, portatrice delle istanze più avanzate e audaci del Concilio stesso, mettendosi talora in contrasto con la Curia romana d'allora. Il rigore filologico del grande studioso, che non transige su una virgola del testo, diventa rigore morale dinanzi ad ogni violazione; il metodo induttivo della ricerca, che risale alla verità partendo dal basso, è di per sé, ha osservato Marco Garzonio, libera indagine, opposta al metodo deduttivo che fa dogmaticamente discendere dall'alto la verità sul reale. Martini non si è lasciato sconcertare, come forse è accaduto a Ratzinger, da alcune sfasate e insensate derive assemblear-pulsionali che hanno malamente accompagnato lo spirito innovatore di quegli anni, intimorendo talora alcuni suoi stessi protagonisti; senza sgarrare di un millimetro dai capisaldi della fede e della morale cristiana, non ha permesso ad alcun confuso disordine di farlo arretrare dalla sua ferma e pacata apertura. Ha conosciuto, prima e dopo la sua morte, molte livide ostilità da parte dell'ala conservatrice della Chiesa, forse enfatizzate pure dalla vulgata mediatica, anche se egli si è definito «tradizionalista»; infatti l'autentica tradizione, come scriveva anni fa Rodolfo Quadrelli, forte saggista e poeta cattolico avverso ad ogni progressismo di maniera, è la continuità della Chiesa che cresce creativamente fedele a se stessa, senza snaturarsi e irrigidirsi. Nega questa creativa tradizione sia chi vuole bloccare la Chiesa nel passato, come se poi fosse morta e sclerotizzata, sia chi la vuole far cominciare con i fermenti del Concilio, come se prima fosse in catalessi. Martini sapeva che il Concilio le aveva impresso un nuovo grande slancio, una peculiare forza di parlare al mondo. Martini era maestro di laicità, ossia di quella capacità di distinguere fra ciò in cui si può credere e ciò che si può dimostrare; laicità oggi minacciata dal fondamentalismo clericale e da quello laicista egualmente intolleranti. Da questo spirito autenticamente laico, nasce una delle più forti preoccupazioni espresse da Martini, anche in queste pagine: la preoccupazione per la sopravvivenza dell'ethos politico, sempre più cancellato dalla politica-spettacolo, dall'indecenza sfrontata, dall'esibita negazione delle più elementari virtù civili. Oggi è al potere una colloidale classe sociale non più socialmente definibile, se non con quel termine con cui Marx designava il sottoproletariato oppresso e sfruttato al punto di aver perso coscienza di sé, proletariato intellettualmente, moralmente e politicamente «pezzente» (Lumpenproletariat), parola che oggi ben si adatta a definire una gelatinosa classe media generale che non si può classificare né bassa né media né alta, una vaga e indifferente «gente». Anche la collaborazione di Martini al Corriere, negli ultimi anni e in quelli lontani della stagione più difficile del Corriere - quelle «schegge lucenti di cultura e di grazia dei suoi articoli», come li chiamava il direttore di allora, Alberto Cavallari - è stata una prova di questo impegno civile. Evangelizzare la nostra società, nel senso proprio e in quello lato, è un compito così arduo da sembrare perfino a Martini un sogno, anche se, come egli precisa, non certo inteso quale fuga nella fantasia. «Lasciateci sognare», dice il titolo di questo libro, titolo inadeguato al libro stesso, che non è l'invocazione di un'anima bella a essere lasciata in pace nelle sue nobili aspirazioni lontane dalla realtà, ma è un buon combattimento a occhi ben aperti sulla realtà, per cambiarla e non solo per sognare di cambiarla, per impedire che ci si appisoli davanti al male.

Oltre l’indifferenza di Pierangelo Sequeri Questo tempo per vedere i frutti dell’avidità, di cose e di sé

Che dobbiamo fare?», dice la folla. La domanda è rivolta a Giovanni il Battista, e siamo all’inizio di tutto. Giovanni percorre l’intera regione del Giordano, restituendo vita a un’antica parola di Dio: «Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri». La parola viene dal libro di Isaia. La vita ce la mette Giovanni: «Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira imminente? Fate dunque opere di conversione». (E non mi venite a dire che siete figli di Abramo e avete già dato. Incominciate da voi stessi). Quanto alla domanda, che in molti gli rivolgono, la risposta di Giovanni è molto concreta: chi ha il doppio di tutto, può campare benissimo anche con la metà; e chi ha potere sugli altri si accontenti del giusto, senza estorcere niente a nessuno. In altre parole, non siate ingordi di beni, non abusate del potere. Per il resto, Colui che deve venire, aprirà il vostro cuore con Spirito santo e fuoco: e saprete davvero chi siete e che cosa valete. Non è poi così enigmatico e fumoso, questo ammonimento, vero? Volessimo riassumerlo, per la nostra condizione odierna, potremmo dire così. La prima mossa, per sgomberare il terreno al Signore che viene, è questa: mettere risolutamente fuori gioco l’avidità. Deve essere un soprassalto collettivo, una conversione della mente, uno scatto di orgoglio. Domandiamoci tutti insieme: che razza di stile di vita è mai il nostro? Figli di Abramo, figli di Kant, figli di Mazzini o di chi volete voi: ma adesso, che cosa siamo diventati? Non meno di un moto collettivo di pura dignità ci è necessario, ormai. Ci siamo troppo intorpiditi, sottovalutando il pericolo. Fino all’istupidimento. L’avidità è un virus che lavora sottotraccia, ramifica nel sangue e nel cuore: sperpera beni che possono benissimo essere condivisi, genera conflitto e abuso di potere, diffonde arroganza e insegna a trattare male tutti. Non te ne accorgi, e a un certo momento cresce l’assuefazione a ringhiarsi addosso, a sbeffeggiare gli onesti, a diffidare tutti, a essere indifferenti a tutti. Ecco, a quel punto, l’avidità ha fatto il suo lavoro di erosione: si incrinano i pilastri, cedono i ponti. L’assuefazione all’avidità (anche in chi non ci guadagna niente) ha abbassato la soglia di allerta, ha liberalizzato la soglia della decenza, ha imparato a giustificarsi come un diritto. Infine, si insedia come uno scopo. Nella scena evangelica seguente, arriva la rivelazione che ci è necessaria. Subito dopo il battesimo di Giovanni, Gesù entra nella sinagoga di Nazaret, riceve il rotolo del profeta Isaia – sempre lui – e trova un altro passo. «Lo Spirito del Signore è su di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio». I segni? Sono segni di guarigione dal male, di liberazione dalla schiavitù, di restituzione della speranza. Sono i segni dello Spirito al lavoro. E del fuoco che riscalda l’umana convivenza, ridestando speranza per il suo riscatto, capace di un calore che Dio soltanto può infondere. È la pars construens, il lato costruttivo che ci mancava. Il vangelo di Gesù rilancia, non si accontenta del pareggio. Colmati i fossati, spianati gli ostacoli, deve rientrare in circolazione la passione di non lasciare indietro nessuno, l’entusiasmo di riaggregare i dispersi e gli smarriti, la gioia di dividere le cose buone, i pensieri migliori, i fondamentali dell’umano, i legami che ci sostengono l’anima. L’effetto implacabile dell’avidità, infatti, è l’indifferenza. Può sembrare, all’inizio, che l’avidità accenda il desiderio. Lo ammazza invece. L’avidità trasforma la città in un formicaio impazzito. L’indifferenza desertifica l’anima. Come già l’avidità, anche l’indifferenza, ora, sta cercando di accreditarsi ai piani nobili (si fa per dire) della coscienza collettiva. L’indifferenza ha il ciglio asciutto e razionale, non si aspetta più niente da Dio (e neppure dagli uomini). È agnostica, nella sua versione elegante, anche verso la moralità condivisa. Istruisce l’individuo emancipato a pensare semplicemente a se stesso, come fosse una superiore forma di modestia intellettuale (lo è, in effetti, ma in un altro senso). L’indifferente non pretende di essere sostegno per nessuno, e coltiva l’ambizione di essersi fatto esclusivamente da sé (a parole). Questa perfetta indifferenza a Dio e al prossimo non è autonomia. L’indifferentismo è parassitismo. Non c’è che Dio, in Spirito e fuoco, che possa illuminarci e riscaldarci al riguardo. Il Signore viene, e ce lo spiega: con parole e segni inequivocabili. Se questa volta lo lasciamo arrivare fino al cuore, ci sentiremo come liberati da un brutto sogno. Impareremo anche a commuoverci e a sorriderci, dalla voglia che avremo di ricominciare insieme.

L’appello del Pontefice: “I potenti non rubino” di G.G.V.

Città del Vaticano - «La conversione comincia dall'onestà e dal rispetto degli altri: un'indicazione che vale per tutti, specialmente per chi ha maggiori responsabilità». Benedetto XVI, all'Angelus di ieri, si è rivolto in particolare a chi ha potere e incarichi pubblici ricordando il settimo comandamento: non rubare. Una riflessione che parte dalla risposta che Giovanni Battista, nel Vangelo, dà ai «pubblicani», gli esattori delle tasse per conto dei romani: «Già per questo i pubblicani erano disprezzati, e anche perché spesso approfittavano della loro posizione per rubare», ha spiegato il Papa. «Ad essi il Battista non dice di cambiare mestiere, ma di non esigere nulla di più di quanto è stato fissato. Il profeta, a nome di Dio, non chiede gesti eccezionali, ma anzitutto il compimento onesto del proprio dovere». Insomma, «il primo passo verso la vita eterna è sempre l'osservanza dei comandamenti, in questo caso il settimo: non rubare». Giovanni si rivolge anche ai soldati, «categoria dotata di un certo potere e quindi tentata di abusarne», e dice loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». Parole di «grande concretezza» che valgono ora come allora, ha spiegato il Pontefice: «Dal momento che Dio ci giudicherà secondo le nostre opere, è lì, nei comportamenti, che bisogna dimostrare di seguire la sua volontà. E proprio per questo le indicazioni del Battista sono sempre attuali: anche nel nostro mondo così complesso, le cose andrebbero molto meglio se ciascuno osservasse queste regole di condotta». Del resto vale per tutti, è alla folla che Giovanni dice: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Benedetto XVI commenta: «Qui possiamo vedere un criterio di giustizia, animato dalla carità. La giustizia chiede di superare lo squilibrio tra chi ha il superfluo e chi manca del necessario; la carità spinge ad essere attento all'altro e ad andare incontro al suo bisogno, invece di trovare giustificazioni per difendere i propri interessi».

mercoledì 5 dicembre 2012

I distruttori delle riforme di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi L’insostenibile peso della burocrazia

Si dice spesso che le riforme non si fanno perché lo slancio riformatore di molti governi (compreso quello attuale) è bloccato dai partiti, i quali in Parlamento difendono gli interessi di chi, per effetto di quelle riforme, perderebbe i propri privilegi. Vero, ma non è l'unico scoglio. Un altro ostacolo, altrettanto importante, è frapposto dalla burocrazia e dai suoi alti dirigenti. Un esempio: da oltre sei mesi si discute di come eliminare i sussidi e le agevolazioni di cui godono talune imprese (senza vi sia alcuna evidenza che questi aiuti favoriscano la crescita), in cambio di una riduzione del cuneo fiscale, cioè restringendo la forbice che separa il costo del lavoro per l'impresa dal salario percepito dal lavoratore. È una scelta con la quale concordano sia Confindustria sia i sindacati. Ma la proposta, pur auspicata dal presidente del Consiglio, non è neppure arrivata in Parlamento: da mesi la burocrazia la blocca. Perché? Semplice: eliminare questo o quel sussidio significa chiudere l'ufficio ministeriale che lo amministra e assegnare il dirigente che lo guida a un diverso incarico. Ciò per lui significa perdere il potere che deriva dall'amministrare ingenti risorse pubbliche. È così che i dirigenti si oppongono sempre e comunque a riduzioni della spesa che amministrano, indipendentemente dal fatto che serva, o meno, a qualcosa. Ma basta questo per bloccare una riforma che anche i partiti in Parlamento auspicano? Perché la burocrazia ha questo potere? Fino a qualche anno fa i funzionari erano di fatto inamovibili: i ministri andavano e venivano, ma i dirigenti dei ministeri rimanevano. Non è più così. Oggi gli alti funzionari si possono sostituire, e tuttavia nulla è cambiato. Il motivo del loro potere è più sottile e ha a che fare con il monopolio delle informazioni. La gestione di un ministero è una questione complessa, che richiede dimestichezza con il bilancio dello Stato e il diritto amministrativo, e soprattutto buoni rapporti con la burocrazia degli altri ministeri. I dirigenti hanno il monopolio di questa informazione e di questi rapporti, e hanno tutto l'interesse a mantenerlo. Hanno anche l'interesse a rendere il funzionamento dei loro uffici il più opaco e complicato possibile, in modo da essere i soli a poterli far funzionare. E così quando arriva un nuovo ministro, animato dalle migliori intenzioni (soprattutto se estraneo alla politica e per questo più propenso al cambiamento), a ogni sua proposta la burocrazia oppone ostacoli che appaiono incomprensibili, ma che i dirigenti affermano essere insormontabili. E comunque gli ricordano che prima di pensare alle novità ci sono decine di scadenze e adempimenti di cui occuparsi: non farlo produrrebbe effetti gravissimi. Spaventato, il ministro finisce per affidarsi a chi nel ministero c'è da tempo. È l'inizio della fine delle riforme. E se per caso il governo ne vara qualcuna senza ascoltare la burocrazia, questa mette in campo uno strumento potente: solo i dirigenti, infatti, sono in grado di redigere i decreti attuativi, senza i quali la nuova legge è inefficace. Basta ritardarli o scriverli prevedendo norme inapplicabili per vanificare la riforma. Prendiamo il caso delle pur timide liberalizzazioni varate in primavera con il decreto «cresci Italia»: come ricordava il Corriere il 19 novembre, fino a poche settimane fa, su 53 regolamenti attuativi ne erano stati emanati soltanto 11. Che fare? La prima decisione di ogni nuovo ministro deve essere la sostituzione degli alti dirigenti del ministero che gli è stato affidato, a partire dal capo di gabinetto. Il ricambio deve cominciare da coloro che da più tempo occupano lo stesso posto e per questo sono spesso i più conservatori, cioè i meno propensi al cambiamento. I costi sono ovvi: un nuovo dirigente ci metterà un po' a prendere in mano le redini del ministero. Ma è un costo che val la pena pagare, quanto più si vuol cambiare. Certo, c'è il rischio che le nomine siano solo politiche, e cioè che invece di dirigenti preparati il ministro scelga in base alle appartenenze politiche. Questo è possibile, ma saranno poi gli elettori a decidere se un governo ha cambiato qualcosa. E i cittadini giudicheranno un governo anche dalla qualità delle persone cui ha affidato l'amministrazione dello Stato. È comunque un sistema migliore di quello di oggi in cui dirigenti non eletti ostacolano e influenzano l'operato di governi eletti direttamente, o indirettamente come nel caso di questo governo «tecnico».